Kenya: Diani/Ukunda - Elezioni 2007, Parole da Ukunda

Ukunda: il giorno dopo l'annuncio di un Kibaki vittorioso su Raila Odinga, la gente commenta il risultato elettorale
Parte 1

Kenya: Diani/Ukunda - Una scuola migliore per Ali e Jaffar


04/09/2007
Cerco aiuto.

Ali è un bambino di 14 anni che ho conosciuto a Diani Beach, in Kenya. Va a scuola come tanti bambini della sua età. Frequenta la primary school. Si tratta di una scuola pubblica.
Le scuole pubbliche in Kenya sono strapiene, le classi sono formate da 60 bambini e i maestri non possono garantire un buon livello di istruzione con classi così piene. La scuola pubblica è gratuita per i primi 8 anni (primary school) e a pagamento per i 4 anni successivi (secondary school).
Voglio che Ali vada in una scuola privata di Ukunda. Si chiama Little Roots Academy. E' considerata, da buona parte degli abitanti del villaggio, come la scuola privata migliore di Ukunda.

Mi è capitato di visitarla più volte, sia per accompagnarvi altri turisti, sia per aiutare un'altra ragazza italiana che ha iscritto un altro Ali(2) proprio nel mio ultimo mese di permanenza li. Si occuperà dell'istruzione di Ali(2) fino al termine della secondary school e penso si attiverà anche lei per una raccolta fondi per sostenerlo a distanza.
Vorrei fare la stessa cosa per il mio Ali, e è qui che entri in gioco tu, lettore/amico/chiunque legga queste righe.

Oggi è stato il primo giorno di scuola di Ali (2) e vorrei, entro brevissimo tempo, raccogliere i soldi per poter mandare a scuola anche il mio Ali.

Un anno scolastico alla Little Roots Academy, comprensivo di tassa di iscrizione, divisa scolastica, assicurazione medica, un pasto tutti i giorni, un pullmino che accompagna i bambini a scuola e li riporta a casa a sera, costa sui 250/300 euro.
I libri, le scarpe, i quaderni, le penne, lo zainetto, le calze, il golfino per l'inverno e qualche accessorio saranno a parte.
L'anno accademico è diviso in trimestri. Da settembre a novembre (dicembre vacanza), da gennaio a marzo (aprile vacanza) e da maggio a luglio (agosto vacanza). Nei mesi di vacanza, sono previste due settimane di corsi intensivi che aiutano i bambini a migliorare ulteriormente la loro istruzione. Ogni tre mesi sono previste prove d'esame. Le due settimane di corsi intensivi e le prove d'esame sono a pagamento (costi non inclusi nella spesa iniziale).

Chiedo, si chiedo, perché chiedere non costa niente, un euro a testa. Uno a te, e uno ai tuoi amici, per poter permettere a Ali di andare a scuola con Ali(2) e avere la speranza di un futuro migliore.
In questo momento alla scuola pubblica Ali frequenta la classe Quinta. Per capirci, la primary school in Kenya è fatta di 8 classi e la secondary school di 4.
Se Ali venisse iscritto alla Little Roots Academy, dovrebbe sostenere un test d'ingresso e probabilmente, dato il livello superiore della scuola, verrebbe rimesso in quinta. Per cui frequenterebbe la Little Roots per 8 anni (4 di primary e 4 di secondary). E per questi 8 anni avremo tolto un bambino dalla strada facendolo mangiare ogni giorno.

Chi volesse verificare l'esistenza della scuola stessa, chi volesse fare qualche donazione indipendentemente dal mio Ali, chi volesse contattare questa scuola per un qualsiasi motivo, questo è l'indirizzo e-mail del direttore: mbetes@yahoo.com

Sarà lieto di spiegare come funziona l'iscrizione e il pagamento della scuola a distanza per un qualsiasi bambino di Ukunda e del distretto di Kwale.

L'indirizzo della scuola è questo:

The Little Roots Academy Ukunda,
Near Mascrape PO Box 6,
Ukunda
Tel: 0722-558284
Director: Mr. Salim Swaleh Mbete


Chi volesse aiutarmi con Ali e eventualmente con altri bambini che conosco a Ukunda, questo è il mio indirizzo email:
tuppa@libero.it

Se vi state chiedendo se non mi vergogno a fare una richiesta del genere tramite il mio blog, la risposta è no, non mi vergogno di chiedere una mano quando ne ho bisogno.

Qui sopra una foto di Ali e me.

06/02/2008 - AGGIORNAMENTO SITUAZIONE ALI
Nel periodo di Natale e Capodanno sono stata nuovamente in Kenya. Ho rivisto Ali. L'ho trovato bene, in salute e con dei buoni risultati a scuola.

Ho portato alla Little Roots gli ultimi soldi arrivati per la sua istruzione e siamo arrivati a coprire le spese fino alla fine del 2009.

Ci sono stati però dei problemi. Ho trovato Ali molto confuso sull'idea che ha maturato di quel che la gente ha fatto per lui.

Qualcuno dall'Italia, qualcuno che lui ha conosciuto in Kenya, gli ha messo in testa che io mi stessi tenendo i soldi che la gente ha mandato per la sua istruzione. Ho fatto molta fatica a ricondurlo alla ragione. Gli ho spiegato per bene che se io mi fossi tenuta i soldi, lui non avrebbe avuto alcuna possibilità di sedere su quei banchi della Little Roots e studiare insieme agli altri bambini. Questo perché in quella scuola non si può studiare se non si paga.

Ho sofferto molto nel sentirmi accusata di una cosa simile. E mi chiedo come possa esserci gente tanto cattiva da porsi tra me e un bambino che vive così distante e per il quale mi sono impegnata moltissimo affinché avesse almeno una buona istruzione.

Ali mi ha detto: "Vedi, tu mi mandi a scuola, ma la mia vita non cambia". Il senso di questa affermazione è, ok, mi aiuti per il futuro, ma in questo momento a casa mia alla sera non c'è molto da mangiare.

E io gli ho detto che so che ci sono altre persone che lo aiutano economicamente per quel che va al di là della scuola, per cui io mi occuperò della scuola e nient'altro, e quelle persone continueranno a aiutarlo con il resto.

Si deve ritenere più che fortunato a ricevere aiuti da più parti. Ma come tutti gli esseri umani, neanche Ali si accontenta e pensa di aver diritto a tutto e subito. E così mi ha detto anche "gli italiani hanno mandato i soldi per la scuola... tu cosa hai fatto?"

Son state pugnalate belle forti. Inutile dirgli che anche io ho fatto la mia parte. Inutile dirgli che se non mi fossi occupata io di parlare con il Direttore della scuola e con Juma Mwahaya che ci ha aiutati fin dall'inizio, nessuno della sua famiglia avrebbe sbrigato le pratiche burocratiche. Inutile dirgli che se non avessi chiesto i soldi tramite questo blog, nessuno li avrebbe mandati e nessuno avrebbe saputo di questo bambino che un tempo voleva realmente studiare alla Little Roots Academy di Ukunda in Kenya.

Per qualche giorno, mentre ero li, abbiamo avuto diversi scontri, con me che cercavo di fargli intendere quanto fosse importante accogliere a braccia aperte l'occasione che gli era piovuta dal cielo, e lui che chiedeva dei regali e soldi alla prima occasione. Io gli ho detto chiaramente che da me non avrebbe avuto altro se non l'istruzione. Il resto gli arriverà comunque da tutte le altre persone in Europa con cui è in contatto.

E' stato un po' difficile ristabilire un rapporto di fiducia.

Si, perché vuoi che è nel periodo dell'adolescenza, vuoi per la cattiveria di chi gli ha insinuato nella mente il dubbio che io fossi disonesta, vuoi per il paragone tra me che lo mando a scuola e gli altri che gli mandano regali e soldi, vuoi per la difficoltà linguistica dovuta al mio e al suo inglese non proprio buoni, vuoi per la mia rigidità in fatto di regalare cose fini a sé stesse, vuoi par questo quello e quell'altro motivo, ci siamo scontrati parecchio.

Ma grazie a queste discussioni, credo che lui abbia capito molte cose.
Tante certo non le approvava, tant'è che diceva ai miei amici che io sono troppo severa e non sono mai d'accordo con lui.

Mi sono sentita come forse si è sentita mia madre tutte le volte che mi sono impuntata contro le sue direttive. Impotente. Ma con la voglia di far capire quali a mio avviso fossero le basi per un futuro migliore.

Ci siamo lasciati bene. L'ultimo pomeriggio trascorso insieme sulla spiaggia, dopo una visita alla sua abitazione, è stato davvero bello, tra rutti e risate. Ho visto dove abita, una tettoia fatta di tre mura, un letto matrimoniale e una poltrona. Un'intera parete manca.

Da qui ho capito molte cose sulla rassegnazione con cui spesso parla della vita a Ukunda. E sulla sua voglia di avere tutto e subito, perché non è che abbia mai avuto molto.

La distanza ha fatto il suo lavoro e Ali è di nuovo alla mercé di sè stesso e di quel che gli sembra più giusto per lui secondo messaggi sbagliati che arrivano da chi gli regala in continuazione cose senza intuire minimamente il danno enorme che sta provocando in questo ragazzo.

In questo momento il Kenya non sta vivendo una situazione facile. E sulla costa i turisti italiani, a causa degli scontri dovuti ai risultati elettorali, si recano in minore quantità nel paese. E la nostra "generosità" viene a mancare. E viene a mancare anche l'interesse a pensare a un futuro migliore che si perde nel caos degli scontri, dell'aumento dei prezzi, della benzina che non arriva, del cibo che non è più reperibile come prima.

Ali da poco più di una settimana ha deciso di non andare a scuola. Dice che andrà alla scuola pubblica perché alla Little Roots Academy ci sono troppe regole, che per poter andare avanti dovrebbe raggiungere un punteggio di 400 marks negli esami e che non si sente di continuare. Gli ho detto che se non torna alla Little Roots, tutti i soldi che sono stati versati per lui, verranno girati a un altro bambino. Lui sostiene che quei soldi sono suoi e che io non posso decidere cosa farne. Gli ho detto chiaramente che quei soldi sono soldi che la gente ha mandato a me per un bambino che aveva voglia di impegnarsi seriamente in una scuola privata, la migliore di Ukunda.

E quel bambino era lui. Ma ora non lo è più perché lui ha smesso di lottare, di desiderare un futuro migliore e di volere studiare come si deve, con regole e con qualcuno che lo tiene d'occhio, che è accorto e presente e lo riporta sulla retta via quando sbaglia.

Ha anche detto che se tornasse a scuola i maestri forse lo picchierebbero. Gli ho detto che Juma l'accompagnerebbe e farebbe in modo che questo non accada. Settimana scorsa Juma l'ha chiamato per incontrarlo venerdi insieme a suo padre (quello sposato con altra donna e che ha rifiutato di prendersi carico di Ali dopo la morte di sua madre).

All'appuntamento Ali non si è presentato. Ieri finalmente si sono visti. Ali ha detto a Juma che vuole andare alla scuola pubblica. Ho detto a Juma di dire a Ali che se lunedì prossimo (11 Febbraio 2008) Ali non sarà alla Little Roots, gireremo i soldi a un altro bimbo che ho già iscritto in Little Roots insieme al mio amico Enzo.

Chiedo, a quelli che di voi hanno donato parte dei soldi per Ali, se sono d'accordo al fatto che usi quei soldi per un altro bambino, che ha un padre che lo segue e che purtroppo non può permettersi di pagare la scuola privata.

Sono molto triste. Spero che Ali torni alla Little Roots. Gli ho anche detto che se lui torna alla Little Roots, farò in modo di raccogliere fondi anche per la sua sorellina, così andranno insieme. Ma se rinuncerà per sé, rinuncerà anche per la sorella. So che questo è un vero e proprio ricatto morale, ma io ci tengo che lui sia seguito dai maestri della Little Roots, e sto tentando davvero tutti i modi.

Ribadisco, se lunedì lui non andrà a scuola, il suo messaggio sarà chiaro e esplicito.

Se qualcuno di quelli che lo ha incontrato a Diani mi sta leggendo, aiutatemi a fargli capire l'importanza della rinuncia che sta facendo. E chi ha intenzione di usare questo post come un'arma per fargli credere che lo sto denigrando qui in Italia, si faccia un'analisi interiore e smetta di ostacolare in questo modo la crescita di un bambino.

L'istruzione, quella buona, è l'unica via che può portare a una possibilità di salvezza in un paese africano. E ora in Kenya più che mai. (ndr. riferimento alla situazione post-risultato elettorale)

12/02/2008 - Ricevo Mail da Juma Mwahaya, il ragazzo che si è occupato fin dal principio dell'iscrizine a scuola di Ali e di tutte le pratiche burocratiche:

Hallo Robi, I am very happy for having this opportunity to pass this missive through this media of communication I hope you are doing well with the illness. I received your SMS at night but I had nothing in my mobile (credit) I had a meeting with Mbete and Ali's father we solved the problem, and Ali has to be in the classroom as from tomorrow therefore the problem was just a punishment as it was before. He lucks discipline and has to be punished!! We hope as from now and as he had promised things will be good for his better future. I wish you all the best and a quick recovery. A big hug. Juma

15/02/2008

Dunque Ali per ora è tornato a scuola. Spero vivamente che ci resti almeno fino alla fine della Primary school (fine del 2009).

Stamattina ho ricevuto un sms da Juma in cui rispondeva a una mia precisa richiesta:

"Jambo Robi. How are you now? Here everything is ok and the boys are well and going to school as usual. I told Mbete all about and he accepted to write you an e-mail and tell u about the boys. Kiss n hug.Juma"

Avevo chiesto a Juma di chiedere a Mbete (il direttore della Little Roots) di mandarmi una mail settimanale sull'andamento scolastico dei bambini che sono iscritti alla Little Roots grazie a persone che ho incontrato e ho portato li, e perché no, anche grazie a me, in modo da poter tenere tutti aggiornati sulla loro situazione scolastica. Speriamo bene. Per ora sono felice.

03/03/2008

Sabato mattina ho ricevuto un sms da Juma in cui mi diceva che Ali non sta andando regolarmente a scuola. Ci va quando vuole insomma. Bene, mi sono arrabbiata e non poco.

Ho mandato a Ali questi sms:

"Hi Ali, how are you? What's happening again? Why are you not going to school every day? I told you if you don't want use the opportunity that people gave you in the best way, you can't go to that school. If you go every day it's ok, but if you don't go, I'll tell Mbete to use the money for someone else. So, I Know you're not going every day. I'm very angry. You're playing with me and with your life. And with everyone. Do you want go down the beach? Ok, be a beach boys!

I'll give an opportunity to someone that wants really change his life and studies every day. You've lost your second chance Ali. I tried to trust you a second time, you went to school on wednesday and not on Monday as I said, but I was happy. Now I know you're not going daily. So, from monday, you're free.

It wasn't a prison, but you thought as it was. Ok, You're free to go down the beach and ask money to tourists for the rest of your life. Good Life. Rob"

Scusate il mio inglese, ma è quel che è.

E poi ho mandato a Juma i seguenti sms:

"I've sent 2 sms to ali saying that he has lost his chance because he's playing with his life. If you can, tell Mbete I don't want Ali will be accepted at school from monday. I want that every money I sent for him, will be used for Jaffar. I'm sure of this decision. Ali doesn't really want change his life. Ali wants be a beach boys. Ok, let him be like that. I told him that from monday he's free to go down the beach and ask money to tourists till the end of his life.

Mbete can read this sms. I'll explain everything in my letter that I'll give to my friend Jessica (she's coming on wednesday at Diani Beach). But on monday Ali will be out from Little Roots. I'm sad and angry, but even tired of his behavior. I know I'm not his mother but I wanted the best for him as a mom wants for her kid. But he didn't appreciate. Maisha. Big kiss. Rob"

E così da oggi voglio che Ali sia fuori dalla Little Roots. Jaffar ha 5 anni. E' figlio di Juma. E sono sicura che Juma lo seguirà passo per passo nel suo percorso scolastico.

31/03/2008 - Jaffar sta andando a scuola tutti i giorni e in questa settimana avrà i suoi primi esami. Juma, il suo papà, è molto orgoglioso di lui e anche io lo sono. A 5 anni ha la possibilità di percorrere una strada differente da quella degli altri bambini. E un giorno si renderà conto di avere avuto una grande opportunità.

Clicca qui per leggere i commenti di chi ha accettato di devolvere il denaro che in principio era stato raccolto per Ali, al piccolo Jaffar e alla sua istruzione.

Kenya: Diani/Ukunda - Il Kenya visto con gli occhi di Filippo (9 anni)

Questa estate in vacanza siamo stati in Kenya!!!!! Stupendo! Io lo desideravo tanto e il 7 agosto 2007 siamo finalmente partiti. Appena arrivati siamo saliti su una gip. Durante il tragitto guardavo fuori dal finestrino i bambini dalla pelle scura,le case il paesaggio.

Il nostro albergo si chiama Tiwi biic e li' abbiamo fatto subito amicizia con Antonio un animatore che parla benissimo l'italiano perche' e' di Malindi. L'albergo e' cosi': lungo, con un baobab di fronte a una piscina lunghissssima, c'erano anche le scimmie con le parti basse azzurre. Erano velocissime a rubarci le creps alla cioccolata. Alla sera c'era sempre uno spettacolo e a volte la disco.
La spiaggia era bianchissima e il mare limpido con l'alta e la bassa marea. Nel nostro albergo c'erano tanti bambini francesi e anche se non ci capivamo bene giocavamo a biliardo e in spiaggia.

IL 12 agosto siamo andati a Kisite che e' un parco naturale, abbiamo visto tanti pesci colorati ma io non sono riuscito a vedere i delfini. Abbiamo mangiato tanto pesce. E' stata una escursione molto bella.

Finalmente 4 giorni dopo siamo partiti per il safari!!! Prima siamo andati a Tsavo est dove abbiamo visto i leoni maschi a 800 metri e le leonesse a 20 metri abbiamo visto tante zebre, impala, gazzelle, giraffe, facoceri bufali e tanti "Pole Pole " cioe' elefanti anche con i piccoli. Poi siamo andati al Parco Amboseli che e' stato quello che mi e' piaciuto di piu' perche' abbiamo visto animali nuovi come le iene, gli ippopotami, gli gnu e anche i ghepardi con i cuccioli. Ho fatto una foto bellissima e quando la guardo perche' e' attaccata al muro della mia camera mi ricordo del Kenya, in mezzo a una savana circondato da migliaia animali liberi. In questa foto ci sono i ghepardi: erano in tre, un maschio e due femmine in caccia. Io non avevo paura anche se erano solo a 25 metri di distanza.

I ghepardi hanno le macchie come i leopardi. Sono agili e anche molto veloci, hanno due lacrime nere che scendono dagli occhi. Hanno anche dei baffi che, come tutti i felini, servono da sensori, cioe' per saltare gli ostacoli. Uno era in piedi , uno seduto e uno sdraiato, alle loro spalle c'erano i bufali che brucavano l'erba e dietro ai bufali una foresta fittissima . Era la mia prima volta che vedevo i ghepardi, erano bellissimi.
Allo Tsavo Ovest abbiamo visto i coccodrilli ma non il leopardo, peccato!
La nostra guida si chiamava Gion. Era di pelle scura alto cira un metro e sessanta ed era anche molto bravo, parlava sempre in inglese con papa' e la mamma che poi mi dicevano cosa aveva detto.
Mi piacerebbe tornare al Masai Mara.
Vi consiglio di andare a fare il safari in Kenya perche' e' un'esperienza fantastica e non la dimentichero' mai.

Filippo B. anni 9

Kenya: Diani/Ukunda - Al Southern Palms Resort troverete Abdul, Bongo e Zula

Abdul


Bongo


Zula


Abdul, Bongo e Zula lavorano per una delle tante agenzie di Diani Beach e come tanti ragazzi lungo la costa, svolgono il loro lavoro sulla spiaggia, dove l'afflusso dei turisti è cosa certa. Li potete trovare di fronte al Southern Palms Resort. Ho avuto modo di conoscerli grazie a Cosma, uno dei tanti che m'hanno contattato prima del proprio viaggio a Diani per qualche consiglio su come organizzarsi.

Spesso succede che chi va a Diani e incontra qualcuno che io ancora non conosco e non ho inserito nel blog, colga l'essenza e la bellezza di altre persone che meritano una possibilità. E questo blog di possibilità ne da davvero tante. Non tantissime, ma diciamo che dona una certa visibilità a ragazzi che magari di primo impatto non ti danno l'impressione di meritare la tua fiducia.

Avrei dovuto incontrare Cosma in Kenya a agosto 2008, ma per una serie di coincidenze sfavorevoli, non siamo riusciti a trovarci. Gli avevo lasciato il mio numero di cellulare troppo tardi, quando oramai tutt'e due non potevamo leggere le risposte alle nostre mail. E così, una volta a Diani, lui ha fatto la sua vacanza nella zona del Southern Palms e io nella mia zona solita (tra il Diani Sea Resort e il Kole kole).

E è li che Cosma ha avuto modo di trascorrere del tempo con Abdul, Bongo e Zula.
Quando è tornato in Italia, ha trovato il mio numero di cellulare e mi ha contattata via sms chiedendomi di incontrare i tre ragazzi perché a suo dire meritavano un posto nel mio blog.

"Quando sono arrivato a Diani mi sono tuffato subito a vivere il più possibile i giorni che avevo a disposizione, che "in loco" era molto più evidente che non qui quanto fossero maledettamente pochi. Non ho pensato a consultare la mia posta perchè letteralmente non c'era tempo. In ogni modo sono stato bene ed ho vissuto la mia permanenza lì in modo "verticale", quindi più che soddisfacente. E' andata così bene che ora mi ritrovo a Bari a progettare l'invio di un gruppo elettrogeno (e altro...) a Mwakamba, il villaggio di diseredati dietro il fiume a nord di Diani. Ma ti racconterò tutto dopo.
Ora vorrei chiederti se ti è possibile "aggiungere" al tuo blog i nomi e le foto di tre beach-boys coi quali ho legato lì e che, a mio giudizio, lo meriterebbero. Ho parlato loro di te e della tua iniziativa e per contattarti ho potuto solo indicare di rivolgersi ai ragazzi di "Waterlovers". Ora che ho il tuo numero (di lì, credo) vorrei darglielo per sms, ma devo verificare tra poco se tu sei lì e se mi autorizzi a farlo.
I ragazzi si chiamano Zula,Bongo e Abdul. Stanno in permanenza (come tutti i gruppi di B.B.:ognuno un territorio fisso) sul lato sud del Southern Palms."


E così sempre per coincidenze sfavorevoli (telefonate e appuntamenti mancati), io e i ragazzi siamo riusciti a trovarci solo il mio ultimo giorno a Diani. All'appuntamento sono venuti solo Abdul e Bongo. Abbiamo chiacchierato, ho chiesto loro cosa fanno nella zona del Southern Palms, ho cercato di sondare il terreno per capire quanta voglia di lavorare avessero e quanto realmente meritassero un'opportunità.

La simpatia di Bongo mi ha conquistata immediatamente. Di una tenerezza infinita.

Ho deciso di usare le parole di Cosma per descrivere questo trio, che sono certa vi conquisterà.

"Sono felice che i ragazzi ti siano piaciuti. Anche Zula, che non hai conosciuto, è un ottimo elemento. Anzi, è quello che meglio sapeva capire che se non si muovono in avanti da quella condizione, raccoglieranno solo e sempre le briciole di tutti quei 'resorts'. Sapessi anche a me quante idee sono venute per poterli aiutare...ci sto pensando seriamente.
Per ora gli ho promesso, come ti ho scritto nella precedente, un gruppo elettrogeno che dovrebbe bastare per un po' di corrente a tre famiglie di Mwakamba, il villaggio dove abitano.
Che schifo, Roby. Gli manca tutto, in quelle tane di fango, e a 100 metri c'è acqua e corrente elettrica da spreco.
Ci vorrebbe una buona 'botta' di castrismo in Kenya, altrochè...
Va beh, vediamo cosa possiamo fare noi qui e ora..."


Con i ragazzi abbiamo stabilito come al solito i prezzi più giusti da proporre ai clienti che desiderassero fare un safari con loro, una gita a Wasini o Funzi, un'escursione a Mombasa e compagnia bella.
Qui di seguito i prezzi che abbiamo definito:
- Gita a Mombasa - 25 euro
- Safari Tsavo Est - dai 130 euro in su (a seconda di dove andrete a dormire e in base al mezzo di trasporto scelto tra jeep o pullmino)
- Gita a Funzi o Wasini - dai 35 euro in su
- Gita al reef 1300 scellini. Questo prezzo è diverso da quello dei ragazzi che stanno nella zona dal Kole Kole al Diani Sea Resort, questo perché il reef è più lontano e con la barca con il fondo di vetro consumerete più combustibile.
- Risalita del Congo River - 1300 scellini. Questa è una cosa che si fa solo nella zona dal Southern Palms a Tiwi beach. La consiglio a tutti perché arriverete al villaggio di Mwakamba e potrete trascorrere una giornata diversa immersi nella realtà locale, con le famiglie dei ragazzi.

Per gli altri prezzi, se volete farvi un'idea, guardate quelli di Damma tours. Più o meno con tutte le agenzie locali abbiamo definito quei prezzi. E' chiaro che io vi indico i prezzi che potete ottenere dopo una buona contrattazione. Dunque dovrete giocarvela con le vostre energie!

Che dirvi di più. Finora non avevo nessun contatto da offrirvi per quella zona di Diani. E sono certa che questi tre moschettieri vi faranno compagnia nel modo giusto, e l'amore per il loro paese vi verrà trasmesso giorno dopo giorno. Inevitabilmente tornerete in Italia con quello che in molti chiamano mal d'Africa.
Questo il loro contatto:
Abdul (Abdalla Suleiman Mkiamimi), Bongo (Athuman Omar Bagu) e Zula
Cellulare: +254736372429

Se desiderate qualche informazione in più sulla zona, o se desiderate contribuire anche all'acquisto del gruppo elettrogeno per il villaggio di Mwakamba, vi lascio il contatto di Cosma:
kosma@libero.it

Kenya: Diani/Ukunda - Juma Mwahaya e il suo reef


Juma lavora al Diani Sea Resort. Non è un beach boys, ma lavora per commissione in hotel e fa parte dell'equipe che organizza le escursioni al reef con la barca dal fondo di vetro. Lavorare per commissione significa che se ha qualche cliente, guadagna, altrimenti torna a casa senza soldi.
L'ho conosciuto nell'agosto 2007 in un'occasione particolare. Una mia amica ha conosciuto Ali, il suo cuginetto e ha deciso di pagargli l'istruzione fino al termine della secondary school. Juma ha aiutato me e la mia amica con tutte le pratiche per l'iscrizione alla scuola di Ali.
Al mio rientro in Italia mi ha aiutata per tutte le pratiche per l'iscrizione a scuola del MIO Ali. E ancora oggi è lui che mi tiene aggiornata su ogni particolare riguardo i due bambini.
Juma è un ragazzo straordinario e posso assicurare che ci si può fidare di lui ciecamente. Spero che questo spazio lo ripaghi di tutta la sua bontà e generosità con cui mi ha aiutata senza MAI chiedere nulla in cambio.
Vi porterà al reef con la barca col fondo di vetro, vi mostrerà le bellezze del fondale marino di Diani e sarà a vostra disposizione per qualsiasi necessità.
Juma parla inglese. Mandategli un sms o scrivetegli una mail. Ditegli che vi manda Roberta. Sarà felice di accogliervi al vostro arrivo a Diani e di farvi anche da guida per le vostre escursioni extra, per Ukunda e dintorni.
Ecco i suoi recapiti.
Email: jmwahaya@yahoo.com
Cellulare: +254735225044

Kenya: Diani/Ukunda/Makongeni - Mohamed e Rafiki Kenia Foundation


Ho conosciuto Mohamed a agosto 2007. Passeggiava lungo la spiaggia di Diani con la sua maglietta azzurra di Rafiki Kenya Foundation. La prima cosa che mi è venuta in mente quando l'ho visto è stata: "voglio anche io quella maglietta!"
L'ho fermato, abbiamo iniziato a chiacchierare e lui ha cominciato a parlare dell'associazione. Mi ha detto che lui personalmente stava cercando di raccogliere fondi per dare un letto ai bambini di Makongeni. La cosa mi è sembrata subito interessante, ma in un primo tempo ho pensato fosse la solita bufala di quelli che cercano di raccogliere soldi lungo la spiaggia facendo appello a associazioni fittizie o scuole fittizie per cui collaborano.
Ma poi ascoltandolo, una vocina nella mia testa mi ha spinta a chiedergli di portarmi alla sede dell'associazione così avrei verificato di persona che le sue parole corrispondessero a realtà.
E la mia nuova amica Germana ha deciso di seguirmi. Solo verificando l'esistenza dell'associazione avremmo seriamente dato un contributo.
Con la nostra richiesta pensavamo di mettere in difficoltà il presunto truffatore, e invece lui ha accolto immediatamente la nostra richiesta chiedendoci quando saremmo state disponibili a andare con lui.
E così un giorno abbiamo preso il matatu e via, direzione Makongeni.

L'associazione esiste, lavora seriamente per il villaggio e la sua comunità e nel nostro piccolo abbiamo contribuito. Quando l'associazione riesce a comprare un letto, viene riunito tutto il villaggio e vengono chiamati a raccolta tutti i bambini. Il nome di ogni bambino viene scritto su un pezzetto di carta e ogni pezzetto viene messo in una scatola.
Viene chiamato un bambino che estrarrà uno dei bigliettini. Il nome del bambino contenuto nel biglietto estratto, è un nome fortunato perché quel bambino si porterà a casa il letto nuovo.

Guardate il video qui sotto:

Cari tutti, se dunque vi capita di incontrare Mohamed lungo la spiaggia di Diani Beach, ascoltate quel che ha da dire in merito al villaggio di Makongeni, e non abbiate timore a andare con lui a visitare il villaggio e la sede di Rafiki Kenia Foundation. L'associazione esiste e è seria e basta un piccolo contributo per dare un grande aiuto.
Ecco i dati dell'associazione:
sito web: www.rafikikenia.nl
email: contact@rafikikenia.nl
Scarica la brochure cliccando qui

Presidente: Juma Bakari Sefu
indirizzo: Rafiki Kenia Foundation - PO Box 2454 (80100) - Mombasa, Kenya
Phone: +254733198871 o +254735568596
Ufficio di Rafiki Kenia Foundation: in Makongeni Village

Kenya: Diani/Ukunda - Baobab Beach Resort - Razzie di cibo in hotel

Il video parla da sé:)

Diani Beach, Devu - Collabora con Janoland/Janotours & Safaris



Guarda il video qui sotto!

Devu collabora con l'agenzia locale di Diani che si chiama Janoland/Janotours & Safari. E' una collaborazione che non gli occupa tutta la giornata in quanto lavora come cameriere presso un hotel della zona di Diani Beach. Per poter aiutare la sua famiglia si è dovuto adattare alle leggi di mercato e alla famosa flessibilità, la stessa che porta me a fare almeno 3 lavori qui in Italia.
E' l'uomo dai mille contatti. Potrà accompagnarvi a Ukunda dal sarto per farvi confezionare un abito in stile africano. Se vorrete mangiare cucina locale o piatti a base di pesce e aragoste, lui ha i contatti giusti e affidabili.
Devu vive in una zona di Ukunda dove alcune case non hanno neanche il tetto. E ogni tanto, quando le sue finanze glielo permettono, da una mano ai suoi vicini di casa.
Lo stipendio medio di un cameriere è sui 60 euro mensili. E' per questo che, nonostante il lavoro in albergo, Devu ha scelto di collaborare anche con Janoland, in modo da poter arrivare a fine mese senza l'acqua alla gola e da poter dare una mano a sua sorella che ha un bimbo e nessun compagno che l'aiuti.
Il bimbo della sorella di Devu ha ora 5 anni e dovrebbe cominciare la primary school a Ukunda. Con i guadagni che otterrà dai contatti che riceverà tramite questo blog, Devu potrà mandare suo nipote in una scuola privata e permettergli di avere un'istruzione adeguata. La scuola pubblica in Kenya è sovraffollata e i maestri non riescono a seguire tutti i bambini nel modo migliore. E' per questo che Devu si impegnerà per avere il meglio per il suo nipotino.
Sappiate dunque che contattando lui per le vostre escursioni, aiuterete anche un bimbo a avere un futuro migliore.
Devu non parla italiano, ma non vi preoccupate, si farà capire benissimo.
Mandategli una mail o un sms prima del vostro arrivo a Diani Beach, ditegli che vi ho dato io i suoi riferimenti e state tranquilli che non vi deluderà.

Qui Devu si presenta da solo. Mentre facevo il video m'è venuta la stupidera e non riuscivo a frenare le risate. Scusatemi!:)

Il suo numero di cellulare è: +254723427426
La sua email è: mohdevu@yahoo.com

Diani Beach, Dicky - Kt-Safari è la sua agenzia

Dicky è il boss dell'agenzia Kt-Safari.
E' una persona squisita che si ingegna per trovare le soluzioni più adatte a tutte le vostre esigenze. I prezzi che trovate sul sito sono tutti trattabili. Un buon prezzo per un safari di due giorni allo Tsavo Est resta sempre tra i 140 e 150 euro. Trattare è un obbligo, con lui e con tutti gli altri.
Dove trovarlo? Lui generalmente sta in agenzia, ma sarà sufficiente contattarlo un giorno prima della vostra partenza con un sms e si farà trovare di fronte al vostro albergo. Non sarà difficile trovare per la spiaggia i suoi ragazzi, sempre al lavoro e a caccia di turisti.
L'agenzia Kt-safari devolve parte dei suoi guadagni a una scuola che si trova in una zona poco raggiungibile dal turismo di massa e per la quale sono necessari gli stessi aiuti che siete soliti portare nelle scuole di Ukunda, più facili da raggiungere e più note. Per cui se vi affidate a Dicky, farete anche un'opera di bene.

Il 21 agosto 2007 io e alcuni amici siamo andati a visitare questa scuola. Guardate i video qui sotto. A breve verranno pubblicati gli altri:.

Kenya: In viaggio per Kidongo (Kwale District - 1 PARTE)

Kenya: In viaggio per Kidongo (Kwale District - 2 PARTE)

Kenya: In viaggio per Kidongo (Kwale District - 3 PARTE - La scuola)

Kenya: In viaggio per Kidongo (Kwale District - 4 PARTE - Gli abitanti di Kidongo)

Kenya: Diani/Ukunda - E questo è Dicky che racconta di Kt-Safaris

Ricordate di segnalare nel vostro sms che il contatto l'avete avuto da Roberta.
Scrivete in inglese.
Il suoi numeri di cellulare sono:
+254720831201
+254734461512 (questo lo usa più spesso)
e-mail: ktsafaris@yahoo.com

Kenya: Diani/Ukunda - Moddy di Dem Boom Tours and Safaris



Mohamed, Moddy per gli amici, nell'estate 2007 ha aperto la sua agenzia di safari e escursioni a Diani Beach, in Kenya. L'agenzia si chiama Dem Boom Tours e Safaris e si trova vicino al King's, in quella serie di nuove costruzioni dove presto altre agenzie locali si trasferiranno.
Moddy viene da un'esperienza passata come autista e guida turistica per conto di alcune agenzie locali, e finalmente quest'anno è riuscito a mettersi in proprio.
La sua agenzia organizza safari anche fuori dal Kenya, in Uganda, Rwanda e Tanzania.
I prezzi offerti sono competitivi ma in ogni caso consiglio a chi si accinge a fare una vacanza a Diani, di farsi fare un preventivo da più agenzie e poi scegliere quella che ispira maggior fiducia in termini di qualità/prezzo.
Contattare Moddy è facile. Sarà sufficiente mandare un sms dall'Italia o direttamente sul posto e lui si presenterà al vostro albergo per raccontarvi cosa la Dem Boom Tours and Safaris può fare per voi.

Cellulare: +254721625747

Kenya: Diani Beach, Ukunda, Makongeni - Jambo Bwana


Jambo, jambo bwana, habari gani, mzuri sana.
Wageni, wakaribishwa, kenya yetu hakuna matata. (2x)
Jambo, jambo bwana, habari gani, mzuri sana.
Wageni, wakaribishwa, kenya yetu hakuna matata. (2x)

Kenya nchi nzuri, hakuna matata
Nchi ya kupendeza hakuna matata.
Nchi ya maajabu hakuna matata.
Nchi yenye amani, hakuna matata.

Hakuna matata, hakuna matata.
Hakuna matata, hakuna matata.

Jambo, jambo bwana, habari gani, mzuri sana.
Wageni, wakaribishwa, kenya yetu hakuna matata. (2x)
Jambo, jambo bwana, habari gani, mzuri sana.
Wageni, wakaribishwa, kenya yetu hakuna matata. (2x)

Diani Beach, Ali e Saidi: Aragoste, granchi e pesce a volontà



Guarda video qui sotto!!

Questi sono Ali e Saidi.
Cosa possono fare per voi? Se vi piacciono le aragoste, i granchi e il pesce, ecco due persone che si adopereranno per organizzarvi pranzi e cene succulente. A aragoste, granchi e pesce si aggiungono riso e frutta a volontà. Dove si mangia? Vi porteranno al villaggio dei pescatori. Vi daranno appuntamento al cancello del vostro Hotel, verranno a prendervi puntuali come un orologio svizzero (strano a dirsi per i famosi tempi Kenyoti, ma è la verità!!), e con un matatu vi porteranno a cena. Il posto dove mangerete è molto semplice, non sarà un ristorante di lusso, ma il cibo è cucinato bene, e è di ottima qualità.
Un buon prezzo? 1200 scellini. Le bibite non sono comprese. E a questa somma dovrete aggiungere il costo del matatu (25 scellini all'andata, e 25 scellini al ritorno).
Vale anche qui quanto detto per Juma (il capitano). Se avrete bisogno di qualsiasi informazione su come organizzare safari, gite, escursioni, potete chiedere a loro e vi accompagneranno mano nella mano da chi ha un'agenzia o da chi si appoggia a un'agenzia. Ricordate di scrivere nel messaggio che il contatto l'avete avuto da Roberta.
Scrivete in inglese.
Ecco il numero di cellulare di Saidi:
Saidi: +254733620829

Diani Beach, Mwinyi e Juma: Tuttofare a Diani Beach



Guarda il video qui sotto!

Mwinyi e Juma sono due ragazzi in gamba che lavorano a Diani Beach. Si ingegneranno per trovare la risposta a qualsiasi vostra esigenza. Un safari, un'escursione, una gita al reef quando la marea è bassa, una cena a base di specialità locali, un giro tra Ukunda e dintorni? Loro sono le persone che cercate. Sempre sorridenti e disponibili, vi scorteranno per le strade del distretto di Kwale e renderanno i vostri ricordi indelebili nella memoria.
Per l'organizzazione dei safari vi accompagneranno dal titolare dell'agenzia e vi verrà rilasciata regolare ricevuta.
Mwinyi è stato il mio primo studente quando sono arrivata a Diani Beach. Parla un po' di italiano, per cui se avete difficoltà con l'inglese, lui saprà venirvi incontro con poche frasi che ricorderà (mi auguro!!! ahah). Juma non parla italiano, ma la sua simpatia vi travolgerà e riuscirete a capirvi senza problemi. Donne, attenzione, Juma sta cercando una fidanzata italiana. Mi ha chiesto esplicitamente di scriverlo anche sul blog. E detto, fatto:)
E' carino, simpatico, intelligente e bravo. Ma non sta a me dirvelo!
A parte questo, di questi due ragazzi potete fidarvi. Sono davvero disponibili e gentili, i loro sorrisi vi cattureranno e vi accompagneranno per le strade di Ukunda e dintorni.
Se desiderate contattarli, fatelo un giorno prima del vostro arrivo a Diani e loro si faranno trovare di fronte al vostro albergo all'ora stabilita.
Dite loro che avete avuto il contatto da me, Roberta e che ho mantenuto la promessa anche sull'annuncio di Juma :))))

Cellulare: +254710267945

Diani Beach, Mama Simon - Un arcobaleno di parei, kikoi e kanga

Mama Simon lavora vicino al Papillon Lagoon Reef sulla spiaggia di Diani Beach. Si chiama Mama Simon perché il suo bimbo si chiama Simon. A agosto 2007 mi ha praticamente adottata. Mi riempiva di abbracci e baci tutti i giorni e io ricambiavo con tutto il cuore. Vende coloratissimi parei a prezzi davvero buoni. Un giusto prezzo per un pareo è sui 300 scellini. La trattativa è d'obbligo. Si parte dai 600 scellini circa per scendere fin dove riuscite a arrivare. Se ne prendete più di uno allora può darsi che Mama Simon vi faccia un prezzo davvero africano. Si, perché anche quando si tratta di parei, c'è il prezzo mzungu (europeo) e il prezzo africano :) Sappiate conquistarle il cuore e diventerete per lei dei clienti africani :)
Non ha un numero di cellulare né un indirizzo email, ma sarà sufficiente recarvi vicino al Papillon Lagoon e chiedere di lei. Ditele che vi mando io, la sua figlia italiana Roberta.

Kenya: Agosto 2007 - Diani/Ukunda: Un mese e mille cose inconcluse


Sono tornata
Sono di nuovo qui. Qui. Qui dove? Qui dove i piedi sono ben saldi al terreno, dove le giornate hanno ritmi di sei ore in sei ore come le maree, qui dove i bambini sembrano dei piccoli adulti e possono andare liberi per strada rispettati e protetti da tutti, qui dove il sole si sveglia all'improvviso al mattino e se ne va a dormire con la stessa violenza alla sera.

Qui, dove i ragazzi hanno deciso che per sopravvivere ogni espediente è buono, qui dove i miei valori hanno un valore diverso e dove quelli degli altri sono prepotenti e più comprensibili dei miei. Qui, dove quello che per me è immorale o ingiustificato, trova la sua perfetta collocazione e il suo senso in un sistema così diverso dal mio.

Starò qui per quattro settimane. Non mi par vero. Cosa sono venuta a fare ancora una volta qui da sola? Cosa mi ha portata qui e cosa mi ha spinta a decidere di restarci per quattro settimane?
Cosa troverò di diverso da tutte le altre volte? Perché ho scelto ancora una volta il Kenya e soprattutto la zona di Ukunda? Perché non sono andata in Madagascar? Era li che dovevo andare nel 2006, quando invece mi sono catapultata qui, dove la realtà delle cose è ben diversa da quella che un turista che ci sta per una settimana immagina.

Un turista settimanale arriva qui, vive una settimana in albergo, esce una volta, forse due per andare in paese e crede subito che sia paradiso, un paradiso dove la vita è semplice e le giornate sono condite di sorrisi e bambini che regalano gioia. Poi c'è la verità di molte turiste arrivano qui e si innamorano. E tornano a casa credendo che il mal d'Africa sia una sofferenza dovuta alla nostalgia dei luoghi, quando invece hanno solo nostalgia di un ragazzo conosciuto per pochi giorni e che le ha fatte sentire uniche nell'universo.

Il condimento di una vita qui è fatto di ben altro, di amare notti insonni dovute a pasti saltati un giorno si e l'altro pure, di pianti nascosti da donne che dormono così poco eppure sono bellissime e hanno meno rughe delle nostre donne come se il segreto dell'eterna giovinezza stia altrove e non in interminabili dormite, di bambini che si svegliano alle 5 del mattino per andare a scuola a piedi, perché la famiglia non può permettersi di pagare tutti i giorni il bus della scuola o il matatu. Un giovane keniota vuole poter sognare pure lui, vuole poter arrivare a fine giornata con l'idea che ci sia un futuro pure per lui e per la sua numerosa famiglia.

Qui i ragazzi hanno la certezza che altrove, ovunque, purché non si parli di Kenya, la vita sia migliore. E tu, turista dalle mille e una notte, sei una speranza. Una speranza che per loro la vita possa cambiare, grazie a te e ai tuoi soldi.

Mombasa mi accoglie dandomi un pugno sullo stomaco. E' sempre più caotica ogni volta che ci incontriamo. E in periferia si raccolgono le baracche dei più miserabili, quelli che se ti incontrano per strada ti rapinano con un'arma piuttosto rudimentale ma efficace. Si, li ho visti i bambini che ti chiedono tutti i soldi che hai o ti colpiranno con le loro feci che tengono accuratamente nascoste in una mano dietro la schiena. Cosa fai? Ti opponi?

Ho la videocamera puntata sul mondo circostante. Tutto viene catturato nelle mie mini DV e mi rassicuro pensando che una volta in Italia potrò riguardare tutto con l'impressione di essere ancora a Mombasa. I matatu sfrecciano a velocità incredibili, il traffico scorre per un po' e agli incroci si creano ingorghi inevitabili, il disordine regna sovrano tra gente a piedi, tuk tuk e matatu.

Sul mio pullman ci sono persone che sono in Kenya per la prima volta, altre che ci sono state tanti anni fa e la donnina del tour operator. Questa inizia a raccontare quel che deve raccontare, tra raccomandazioni contro i beach boys e la pericolosità di andare in giro da soli. Mi chiedo in base a che criteri vengano scelte le persone che si devono occupare di accompagnare i turisti da Mombasa all'Hotel. Si, alloggerò in Hotel anche questa volta. Non me la sento ancora di avventurarmi in una casa a Ukunda da sola. E credo che non me la sentirò mai per ragioni che spiegherò più avanti. Insomma, questa donnina ha un italiano pessimo, non mostra nessun entusiasmo e amore per il paese, non ha il sole dentro e nel dire che Mombasa è una città multietnica, che "incontreremo persone di tutti i tipi, indiani, africani, kenioti E GENTE DI COLORE", dimostra immediatamente il livello della sua istruzione e cultura.

Non mi piace chi dice gente di colore.
Come non mi piace chi classifica tutte le persone conosciute in Kenya con il termine Beach Boys. Ho sempre odiato le etichette. Lo scorso anno, al mio rientro dal Kenya ho scritto un racconto in cui parlavo degli amici conosciuti a Ukunda. Per il fatto di averne nominati parecchi, la redazione del portale su cui ho pubblicato il racconto, l'ha deppubblicato più volte senza darmi spiegazioni. Poi ho capito che era perché secondo la redazione il mio racconto era pubblicità ai Beach Boys. Ossia, facevo pubblicità ai kenioti? Se si legge attentamente quel racconto, io parlo di amici con cui esco per Ukunda, di studenti a cui insegno italiano, di persone che hanno condiviso con me il mio Kenya. Il problema era forse che erano amici africani anziché europei? Ho vissuto quell'intervento sul mio racconto come un intervento piuttosto razzista. Potevo andare in giro con europei e nominarli senza avere problemi, ma non potevo andare in giro con kenioti e nominarli perché per la redazione tutti i kenioti erano beach boys? E che male c'è ad avere un beach boys per amico? Odio il termine beach boys.

E' come dire negri, o GENTE DI COLORE. Gente di colore, ma come cazzo si fa a dire gente di colore, ragazzi di colore?
Kenioti è così difficile da dire? Africani è così difficile da dire?
I kenioti ci chiamano europei. Se io vado per le strade di Ukunda, sono una mzungu, non una ragazza di colore bianco. E allora che diritto abbiamo noi di chiamarli "ragazzi di colore", "neri"... L'ignoranza mi fa incazzare.

E il discorso sulla malaria che viene sempre fatto su questi pullman dei tour operator, mia fa girare le ovaie vorticosamente ancor di più. La malaria viene descritta come una semplice influenza che non potresti mai prendere perché tu non ti avventurerai mai a Ukunda con i terribili beach boys. Come se la zanzara anophele vivesse solo a Ukunda, e sapesse che arrivata al gate di un Hotel lei non potesse entrare. Ma smettiamola di dire castronerie di questo tipo.

"Zanzare ce ne sono pochissime. Non ne vedo dai tempi dei portoghesi." Ma per favore. Sai, cara donnina, io a maggio ho avuto la malaria. L'ho incubata a dicembre del 2006 e guarda un po', è stata una zanzara keniota a regalarmela. Nell'hotel in cui ho alloggiato di zanzare ce ne erano. Inutile continuare a tentare di nascondere che le zanzare ci sono. Se il Kenya è considerata una zona a rischio malaria, un motivo ci sarà. Continuerò a fare la profilassi e prendermi cura di me ogni volta che ci tornerò.
Caro turista, se scegli il Kenya come meta delle tue vacanze, sappi che corri il rischio di prendere la malaria. Una volta che sei veramente cosciente che puoi prenderla, puoi partire. E smettila di andare sui forum a chiedere quante zanzare hanno contato quelli che sono stati in Kenya prima di te.

E' in base a questo numero che decidi se partire o meno? Te lo dico io quali numeri devi guardare. Ogni anno in Kenya muoiono ancora di questa malattia 34.000 bambini: un numero che rappresenta circa il 90% del totale dei decessi da malaria nel Paese. Assodato questo, puoi decidere se partire o no e se fare la profilassi o no.

Questo penso nel tragitto che mi avvicina sempre di più a Ukunda per la quarta volta. Mi aspetto qualcosa? Niente. Non ho la più pallida idea di cosa troverò. Ecco Ukunda. Ecco l'incrocio dell'African Pot. Ecco i matatu. Ecco la vita che ho lasciato sette mesi fa. Il filmato continua a girare e spengo la videocamera solo quando arrivo nella zona degli alberghi.
Penso che sto per farmi una doccia, e correre in spiaggia a salutare i miei amici. Nessuno sa che sono qui. Nessuno si aspetta di vedermi così presto.

E' il 28 luglio del 2007, le grandi piogge hanno fatto il loro corso e la nuova ondata di turisti porterà tanto lavoro a tutti.
Mi chiedo se i miei ragazzi sono pronti a rimboccarsi nuovamente le maniche, mi chiedo se hanno capito che è giusto che se le rimbocchino anche quando io non ci sono, mi chiedo se è rimasta qualche traccia delle mie lezioni di italiano, se si ricordano ancora tutti di me, se anche loro hanno riservato un posto tutto per me nei loro cuori, così come io ho un posto per ognuno di loro nel mio.

L'albergo è il più bello che io abbia mai visto finora nei miei viaggi. L'accoglienza alla reception è come al solito impeccabile e finalmente incontro quella che sarà la mia "casa" per quattro settimane. Una camera enorme, un bagno enorme, una veranda enorme. E io mi sento così piccola. Mi impossesso degli spazi immediatamente. Disfo la valigia, metto tutto a posto e la camera diventa subito il rifugio che parla di me. Un po' di disordine qua e là. Doccia. Sono pronta.

Nonostante la donnina tour operator ci avesse raccomandato di farci trovare a una certa ora per il brief in cui tale Francis ci avrebbe raccontato la rava e la fava su tutte le escursioni da fare, pranzo al volo e mi lancio di corsa in spiaggia. Di corsa, mi piacerebbe, ma appena incontro gli omini della piscina mi fermo a chiacchierare. Viene fuori che lo staff dell'hotel non parla italiano. E si prenotano per le prime lezioni dei prossimi giorni.
Non mancano le prime avances, e non mancano le mie risposte secche: "non sono qui per trovare un uomo! So bene come funziona qui."

Arrivo in spiaggia. E una nuvola di persone si accorge della mia presenza e faccio lo stesso effetto che una pozza d'acqua fa ai bufali in savana. Si solleva un polverone di gente che inizia a correre verso di me. Sono un po' agitata, ma la felicità che provo è inenarrabile.

(to be continued)

Da Diani Beach, il 4 agosto 2007 decido di andare a Nord di Mombasa per scoprire l'altra faccia della medaglia: Malindi e Watamu.

Malindi

L’avevo deciso quand’ero ancora in Italia. Dovevo assolutamente conoscere Malindi.

Quando lo scorso anno ho scelto Diani come meta del mio primo viaggio in Kenya, l’avevo fatto perché ero sicura che a Diani avrei trovato pochi turisti italiani. Avevo letto parecchio su Internet e Malindi veniva considerata dai più la Little Italy keniota. Io non volevo assolutamente andare in un posto dove avrei dovuto avere a che fare con troppi italiani.
A Diani avrei potuto fare pratica con il mio inglese pessimo, e avrei potuto mettermi seriamente alla prova. Sarei stata in grado di cavarmela con un inglese che fa ridere i polli? Sarei stata obbligata a comunicare in qualche modo e a abbattere tutti i muri della mia timidezza. Si, perché io sono timida, che ci crediate o no.
La conquista di Diani Beach e di Ukunda è stata un successo, e questa zona è diventata ormai casa mia. Quando torno li è come tornare in Sardegna dai miei amici e dalla mia famiglia, ho qualcuno che mi aspetta, e l’accoglienza è sempre piena di abbracci e di affetto.

La mia avversione verso la zona nord di Mombasa era quasi diventata un capriccio. E soprattutto col trascorrere dei giorni mi è sembrato di non volerci andare per non rinunciare al tempo che invece avrei potuto dedicare alla mia Ukunda e ai miei amici. E così, in procinto di partire per la mia quarta volta a Diani, mi sono messa in testa che un salto a Malindi l’avrei fatto. Ho contattato un’amica che vive a Malindi da anni e le ho chiesto se riusciva a trovarmi una camera a pochi euro.

Detto fatto. Avevo prenotato 4 giorni a Malindi per 10 euro a notte. Quando il 28 luglio sono arrivata a Diani e ho fatto la mia solita discesa in spiaggia, mi sono sentita subito in colpa per aver destinato 4 dei miei 28 giorni in Kenya alla scoperta di Malindi e dintorni. I miei amici mi hanno fatta sentire talmente a casa che mi sono sentita egoista nell’aver deciso di lasciarli per quattro giorni.

Ma oramai era fatta. Avevo preso accordi e comunque è giusto quando si va in un paese, cercare di conoscere tutte le facce del cubo. Si, perché il Kenya non è una medaglia con solo due facce. E’ sicuramente un cubo. Come quello di Rubik, che so già fare da quando ero in seconda elementare. E nella mia testa trovavo giusto cercare di fare tutte le facce del cubo del Kenya. Ukunda è come la faccia bianca del cubo di Rubik, è quella che si fa per prima e poi di seguito le altre. Quella di Diani Beach e Ukunda è la faccia che oramai so comporre anche senza guardare. Nei ricordi è tutto talmente nitido che se chiudo gli occhi ti posso accompagnare per le strade di Ukunda senza farti perdere.

Mi metto d’accordo con Anthony. Mi promette che mi metterà a disposizione la sua macchina per andare a Malindi insieme. Lui ne approfitterà per fare visita a sua madre e alle sue sorelle e io mi godrò questa gita fuori porta. Confesso che spero fino all’ultimo momento che Anthony mi dia buca e io sia costretta a rinunciare a questo sacrificio. Si, lo vivo come un sacrificio.

Venerdi 3 agosto mi arriva un messaggio da tale Victor che mi dice che è d’accordo con Anthony per passarmi a prendere alle 7.00 del mattino seguente per portarmi a Malindi. Mi chiedo dove sia Anthony in tutto questo, ma non importa, sono abituata al fatto che è sempre immerso nel suo lavoro e che probabilmente non ha trovato modo di liberarsi per venire con me.
Mi arriva subito dopo un sms di Anthony che mi dice che verrà con Victor e di non preoccuparmi.
Accidenti, allora sto davvero per partire? Io non ci voglio andare. Questo mi dico nella testa. Non ci voglio andare. Ho appena iniziato le lezioni di italiano a Carol e Habiba, e Kalume mi sta aiutando a migliorare il mio kiswahili. No, non ci voglio andare. E mi addormento con questi pensieri.
Mi sveglio presto. Alle 4 sono già vicino alla reception. Perché così presto se l’appuntamento è alle 7.00? Perché alle 4 Claudia se ne andrà. Si, la mia piccola Claudia partirà e voglio abbracciarla ancora prima che vada via.
Le faccio una sorpresa. Lei non s’aspettava che mi sarei alzata così presto solo per salutarla. Ma io gliel’avevo anticipato la sera prima. Non potevo perdere gli ultimi minuti con lei. Li vedo, si, li vedo i suoi lacrimoni pronti a scendere. Ma non si può più fare niente. Lei chiede a sua madre se può restare con me, ma è retorica, non si può. Ci stiamo separando, ma un pezzo di cuore verrà via con te, e un pezzo del tuo resterà qui con me. Questo penso.

L’angelo con le treccine va via e io vado a fare colazione. Ci sono anche Barbara e Thimoty. Gli dico che sono molto triste per la partenza di Claudia e che mi sembra incredibile essermi legata così tanto a una bambina di dodici anni. Quanto mi mancherà.
Per loro si preannuncia una giornata di safari. Faranno solo una giorno perché non si sentono di fare due giorni.

Alle 6.30 sono già al gate dell’hotel e chiacchiero con Thimoty e Barbara. Stanno per andare a Shimba Hills con Solomon. Solomon è in ritardo. Sono preoccupati e temono che Solomon li bidonerà. Io li tranquillizzo dicendo loro che un quarto d’ora di ritardo ci sta anche. Che è tutto nella norma. Siamo in Kenya, tutto pole pole, c’è il fuso orario di 15 minuti.

E infatti ecco che Solomon arriva sul pulmino dell’agenzia per cui lavora e ci illumina tutti col suo sorriso. Loro partono e per me continua l’attesa di una macchina che non voglio che arrivi. Nel frattempo arrivano al gate altri ragazzi che stanno andando chi in safari, chi a Wasini, chi a Funzi. Tra me e me mi dico che vorrei più riandare a Wasini e Funzi che andare a Malindi. Ma oramai ci siamo Roby, devi smetterla di rifiutare che sei in partenza per la zona nord di Mombasa.

Mi rilasso pensando comunque che non vedo l’ora di riattraversare Mombasa e di vedere nuovi villaggi lungo la strada. Mombasa mi fa sempre un effetto Gardaland. Entro e esco sempre scombussolata per tutte le contraddizioni che si incontrano a ogni suo angolo.
E’ l’unico posto dove a volte sembra che non gliene freghi a nessuno che ci sia una mzungu per le vie. La gente comincia a correre anche a Mombasa. Si, la fretta che si vede a Milano, a Mombasa la vedi. Non dappertutto, ma in tanti rioni di Mombasa la gente corre, è in ritardo, e soprattutto è preoccupata di questo ritardo. Non sembra Kenya. Il keniota medio è in ritardo di default e non se ne preoccupa minimamente.

E così mentre penso queste e altre cose, arriva una macchina bianca, alla guida c’è Hamisi, di fianco a Hamisi c’è Victor e dietro c’è Anthony. Mi dico che forse andremo a Malindi in quattro così tutti possono rivedere le loro famiglie.

Salgo in macchina e Anthony mi dice che la notte prima la sua macchina s’è rotta, che quella non è la sua macchina e che per il mio viaggio dovrò pagare 7000 scellini. Mi dice anche che non verrà con me a Malindi perché deve lavorare.
Gli dico subito che gli accordi non erano questi, che lui aveva promesso che mi avrebbe accompagnata personalmente a Malindi senza farmi spendere un centesimo, e che io quei soldi non ce li ho, che mi sto portando dietro solo i soldi per pagare la camera e qualche altro scellino per andare in giro per Malindi e dintorni.

Tra me e me canto vittoria perché è un’ottima ragione per saltare questo viaggio che non volevo fare, però mi arrabbio con Anthony e gli dico che non ha mantenuto la promessa che mi ha fatto, gli dico che di questo viaggio gliene avevo parlato prima che partissi per il Kenya e che tutto doveva essere come da accordi. Infine, gli dico di farmi riportare all’albergo, che non se ne fa più niente.

Hamisi e Victor parlano tra loro in swahili chiedendosi l’un l’altro cosa sta succedendo. Gli rispondo in swahili e gli dico che avevo preso accordi con Anthony che mi aveva garantito che non avrei speso neanche un centesimo e che ero molto delusa perché avrebbe potuto avvertirmi prima. Avrebbe potuto mandarmi un sms la notte stessa dicendomi “Cara Roberta, la macchina è rotta, ti va bene se andiamo con il taxi di Hamisi? C’è da pagare 7000 scellini”. Avrei potuto quindi scegliere di non partire, o comunque avrei almeno potuto trattare sul prezzo che mi sembra eccessivo, dato che qualcun altro mi aveva proposto di accompagnarmi a 2500 scellini.

Allora continuo dicendo loro che voglio che mi riportino indietro. Hamisi e Victor mi guardano e scuotono la testa. Penso tra me e me che stiano pensando “Ah, questi mzungu non sono mai contenti! Ah italiani!” E invece mi stupiscono perché mi propongono di accompagnarmi comunque almeno fino a Mombasa, mi dicono che mi faranno pagare solo 1300 scellini e poi da Mombasa posso prendere il matatu per Malindi. E aggiungono che non vogliono vedermi triste.
Li trovo molto generosi in questa offerta, e ci rifletto su. Penso che comunque loro due si sono svegliati presto per lavorare per me e che sicuramente anche con loro Anthony non è stato completamente chiaro.
E così decido di accettare. Anthony per farsi perdonare mi dice che verrà con me, che manderà qualcun altro all’appuntamento che aveva e che non vuole che io sia delusa da lui. Gli dico che va bene, ma che non si deve comportare così, che se ci sono contrattempi lui deve avvisare sempre le persone con cui prende accordi, sennò queste non si fideranno più di lui. Mi dice che non capiterà più.

E finalmente il viaggio ha inizio. Passiamo per Ukunda. Hamisi deve prima mettere benzina al Taxi. Andiamo al distributore e dopo tutta una serie di saluti a amici che vengono a chiedermi cosa ci faccio li a quell’ora, mi rilasso guardando la mia Ukunda.
La mattina Ukunda è proprio bella. Le scuole sono finite e i bambini sono per strada. Le mosche sono ovunque e la gente sta sulla porta dei bar perché dentro fa veramente caldo. Salutare chiunque è d’obbligo e ci si ferma parecchio tempo anche solo per chiedersi in mille modi come stai. E le risate suonano ritmi improponibili per il mio kiswahili del mattino.

Anche Ali è in giro da presto con suo fratello, e passa anche lui a salutarmi dal finestrino. Mi stampa un bacio sulla guancia destra e io gli dico che ci vedremo mercoledì prossimo perché vado in vacanza. Lui ride perché mi dice che sono già in vacanza e mi dice anche che non dovrei svegliarmi così presto e fare tutto quello che faccio se sono in vacanza.

Sono le 8,30 e siamo ancora qui. Forse è destino che io Malindi non la incontri mai. Mi chiedo se mentre sarò via Carol e Habiba studieranno dagli appunti che hanno preso, e se Fridah farà pratica con i clienti dell’hotel. E mentre penso incontro gli sguardi e i sorrisi di tanti sconosciuti a cui non mi sono ancora presentata, ma che mi salutano perché loro in qualche modo mi riconoscono e mi dicono che si ricordano di me.

Partiamo. Sento uno strappo dentro. Sto davvero andando via. Ma dai, sono solo quattro giorni.

Assorta guardo le campagne e le capanne ai bordi delle strade. Donne e bambini sulle loro spalle, bambine avvolte da parei colorati e uomini a volte scalzi che forse pensano al lavoro, che forse non ce l’hanno, che hanno speso gli scellini guadagnati il giorno prima in due birre e qualche sigaretta. Quando scrivo queste cose mi sembra di ripetere sempre lo stesso copione, ma è questo che vedo ogni volta, è questo che si ripete sempre davanti ai miei occhi. Mombasa e la gente a piedi sul Likoni Ferry, le strade di campagna che sembrano disabitate e all’improvviso sputano fuori dei bambini come fossero semini di un’anguria, i piedi scalzi che non puoi fare a meno di notare, i bambini che non sono più bambini già a sette anni perché si portano sulle spalle i più piccoli. Tutto questo non finirà mai di riempire i miei ricordi, tutto così uguale alla volta prima e così speciale ogni volta che lo rivedo.

Mi sento sempre più a casa. Mombasa arriva in un attimo. Ci stava aspettando, viva e in movimento più che mai. Siamo pronti a salire sul Likoni. Anthony scende dalla macchina perché dice che se stesse in macchina potrebbe avere problemi con le guardie, per cui è meglio che lui vada con la gente a piedi. Anche io voglio andare con la gente a piedi. Che è sta storia? Mi dice che ci vediamo dall’altra parte, quando la piattaforma arriverà sull’isola di Mombasa.
Eccole le facce da Likoni Ferry. Sono come le facce da tram di Milano. Tutti assorti nei loro pensieri, tutti pronti a scattare appena si arriverà alla fermata, tutti certi che se non correranno arriveranno in ritardo con chissà quali grosse conseguenze.
Me le ricordo tutte le volte che sono stata in mezzo alla gente a piedi. Una mzungu con le infradito tra la gente di Mombasa. Quando si arriva a terra, della mzungu non gliene frega più niente a nessuno, si deve correre e arrivare da qualche parte prima che sia troppo tardi.

Hamisi e io chiacchieriamo mentre il traghetto va e la gente a piedi pensa. Gli chiedo da quanto tempo lavora con i taxi. Mi dice che è talmente tanto tempo che non ricorda. Mi dice che è molto contento per il suo lavoro, che è faticoso, ma che a Ukunda è un lavoro che rende bene. Gli dico che gli farò pubblicità, che il suo numero di cellulare comparirà sul mio blog, così quando qualche turista italiano vorrà un taxista a disposizione per muoversi a destra e a manca per Ukunda, potrà rivolgersi a lui. Mi ringrazia e continuiamo a parlare. Mi dice che la notte spesso fa fatica, e che ha i ritmi tutti sfasati. Gli dico che anche in Italia i taxisti lavorano anche la notte e che so che è dura perché immagino anche che lui abbia famiglia e che si possa godere i figli pochi momenti durante la giornata.

E mi dice che è proprio così, che la mattina lui torna a casa e dorme. I bambini sono a scuola, e può vederli un po’ la sera prima di attaccare col lavoro. Gli dico che è importante lavorare, perché senza il suo lavoro i suoi bimbi non potrebbero andare a scuola e mangiare ogni giorno. Lui mi dice che è fortunato, che se l’è cercata la sua fortuna, che ha preso la patente molto presto e ha cercato subito lavoro. Mi dice che spera di avere una macchina tutta sua al più presto. Quella che sta guidando è del suo capo, per cui lui guadagna solo una percentuale sugli incassi di ogni notte.

Gli auguro che il suo sogno diventi realtà. E arriviamo sulla terra ferma. Anthony ci aspetta non troppo distante. Hamisi ci accompagna fino alla fermata del matatu per Malindi e ci saluta. Mi dice che gli ha fatto piacere incontrarmi e che se avrò bisogno di lui quando tornerò a Ukunda, posso chiamarlo. Grazie Hamisi, ti chiamerò di sicuro.

E ora tocca a me e Anthony correre. Si, perché di matatu in partenza per Malindi ce ne sono tanti, ma noi dobbiamo prendere proprio quello laggiù, quello davanti a tutti gli altri. Ma perché? Perché non ne prendiamo uno qualsiasi? Tanto prima o poi arriveremo.
Anthony dice che così arriveremo prima. Ecco cosa scopro. Scopro che Anthony sta diventando europeo. Ha immagazzinato il concetto di arrivare prima e in fretta. Haraka haraka. Ma perché? Perché si pensa che se non si va in fretta non si arriva da nessuna parte? Ma questo lo pensano gli europei. Perché lo pensi anche tu Anthony?

Eccomi di nuovo su un matatu dove sono l’unica bianca. Una bianca che va a Malindi con uno zaino. Sembra che gli sguardi della gente si chiedano come mai una mzungu viaggi senza valigia.
Mando un sms a Donatella e le dico che arriverò un po’ tardi, che appena arriverò comprerò una scheda keniota e che la chiamerò. E’ vero, è vergognoso che mi trovo in Kenya da una settimana e ancora non ho un numero Safaricom su cui essere rintracciabile.

Nel tragitto tra Mombasa e Malindi Anthony mi racconta della sua bimba, di quanto è bella, di quanto sta lavorando per farle avere un futuro migliore di quello che può avere lui. E’ vero, l’ho notato subito, dal primo giorno in cui l’ho incontrato in ste vacanze che Anthony sta lavorando davvero tanto. E’ una molla che non si ferma mai, va da una parte all’altra, da un cliente all’altro. Gli dico che sono fiera di lui, ma che deve avere cura di sé e non deve dimenticare mai i valori che ha sempre avuto. Ritorniamo anche sul discorso del mattino, e di quanto sono rimasta male per il contrattempo che c’è stato. Gli dico che è sempre meglio dire la verità e per tempo, piuttosto che aspettare e vedere come va.

Sembra capire il mio discorso. Parliamo di tante cose, mi racconta di tanti progetti che ha per poter fare qualche soldo in più. E comincio davvero a credere che sia davvero entrato nell’ottica dell’imprenditore europeo. Ha mille idee e mille spunti per realizzarle. A distanza di un anno mi trovo davanti a una persona che si è svegliata, e ha cominciato a farsi un culo grosso così per realizzare i propri sogni. E’ una cosa rara tra le persone di Ukunda. Sono contenta per come stanno andando le cose per lui e gli auguro di non perdersi per strada, perché i soldi, diciamocelo chiaramente, danno alla testa. Più se ne hanno, più se ne vogliono avere e spesso si cerca di farli anche in maniera disonesta. Parliamo di onestà e lui dice che cercherà sempre di essere onesto. Gli credo.

Malindi si avvicina e io sono elettrizzata. Passiamo vicino a Kilifi e mi riprometto di tornarci settimana prossima. Kalume mi aveva chiesto se volevo accompagnarlo a salutare degli amici nel suo giorno libero. E gli avevo risposto di si. E ora che Kilifi è davanti ai miei occhi sono davvero contenta di aver risposto di si. Voglio proprio visitarlo meglio questo posto.
E non vedo l’ora che sia settimana prossima per venire qui con Kalume.

Passiamo vicino a Watamu ma non vedo niente. Anthony mi indica il parco marino, ma il bus sta correndo troppo forte e il sole sugli occhi non mi aiuta. Superiamo Mida e Gede e io non riesco a fare nessuno scatto nella memoria. Ma mi riprometto di tornarci con calma nei prossimi giorni.

Ci siamo. Malindi Town. Si scende. Anthony prende il mio zaino e mi dice che dovremo camminare un po’. Io sono felicissima di camminare, perché così comincerò a farmi un’idea di questo nuovo posto. E l’idea è subito molto confusa dall’infinita quantità di Tuk Tuk che corrono da una parte all’altra e che si fermano appena ti vedono per chiederti se possono portarti dove stai andando. C’è il traffico. Si, a Malindi c’è il traffico. E tanto rumore.

Compro subito una scheda telefonica e finalmente posso entrare in contatto con i cellulari kenioti. Chiamo Donatella e le dico che sono arrivata. Lei è alla Barclays a sbrigare delle commissioni. Mi dice di farmi portare li. E obbedisco. Camminiamo, scatto foto con la memoria e comincio a incuriosirmi di tutto quello che sicuramente c’è nei dintorni di questa Mombasa in miniatura. Sicuramente ci saranno dei villaggi qui intorno, mi dico e sicuramente è un attimo andarci.

Dico a Anthony che se vuole può andare pure e lo ringrazio per avermi accompagnata. Mi dice che aspetterà con me che Donatella finisca in banca. E mentre aspettiamo, ecco arrivare uno alla volta tanti amici di Anthony. Si, perché lui è originario di Malindi. Tutta la sua famiglia vive li. Per cui lo conoscono in tanti. Assisto ai saluti di routine che durano almeno mezz’ora e rido come una matta perché non mi stancherò mai di questi convenevoli.
Mando un sms a Bianca e le dico che sono a Malindi e resterò li per quattro giorni. Non andrò più a Watamu per i due giorni come le avevo detto, ma spero comunque di vederla. Mi dice che magari domani verrà a trovarmi.

E’ bizzarro come ci siamo conosciute. Grazie a un forum su internet ci siamo messe in contatto e ci siamo promesse che una volta in Kenya avremmo dovuto incontrarci per forza.
E sta succedendo, domani ci incontreremo.
Finalmente l’incontro con Donatella. Eccola, scattante, allegra e piena di adrenalina subito mi travolge con la sua solarità. Le presento Anthony, le dico che è venuto fin li solo per accompagnarmi e che ora se ne tornerà a Ukunda perché ha da lavorare. Saliamo sul suo mitico motorino rosso, e ci dirigiamo verso Mtangani, un piccolo villaggio fuori Malindi non troppo lontano dalla città. La gente non ci toglie gli occhi di dosso, due donne mzungu su un motorino. Roba da far drizzare i capelli.
Sono felice che non vivrò in città. Appena imbocchiamo la strada sterrata che da Malindi porta nella zona di Mtangani, il mio volto si illumina di gioia. Abiterò in campagna, dove probabilmente potrò vedere qualcosa di più bello di una città caotica come Malindi.

Memorizzo ogni dettaglio della strada che porta a casa mia perché da domani dovrò cavarmela da sola e dovrò ricordarmi come tornarci senza Donatella. Per strada incontriamo qualche gruppo di ragazzini che vanno chissà dove, dei ragazzi un po’ più grandi sui boda boda, e delle donne con ceste e bidoni d’acqua sulla testa. Mi piace questa zona. Qui si che mi sento di nuovo in Kenya.

Arriviamo a casa di Donatella e mi da le chiavi della mia casa. La mia casa. E’ incredibile. E’ una villa enorme e ci abiterò da sola. Si chiama Villa Angelina e ha un giardino talmente grande che se avessi dei bambini, potrebbero correre e giocare a nascondino per tutto il giorno.
Fuori dal cancello si materializzano immediatamente dei pargoli incuriositi da questa nuova mzungu. Mi presento, batto cinque a quelle manine e entro in casa.

La porta di casa è aperta. Dentro c’è Nicholas. Nicholas sta preparando tutto per me. Ci presentiamo e lui subito mi sorride. Mi mostra la mia camera, e sono davvero entusiasta. E’ tutto così grande e io sono una sola, e piccola.
Quella casa appartiene a una signora italiana che in quel momento non è in Kenya e che ogni tanto affitta le camere a chi ne ha bisogno.
Sono stata proprio fortunata. Dico a Donatella che vado a farmi una doccia e che la raggiungo a casa sua al più presto.

Disfo lo zaino. Non che ci fosse niente da disfare, però tiro fuori le poche cose che mi sono portata. E creo subito disordine. Mi piace impossessarmi dei luoghi mettendo i miei oggetti un po’ ovunque.
Shampoo, sapone e costume. E via, dentro la doccia.
C’è un problema, dal microfono della doccia non scende acqua. Ma ecco che vedo un rubinetto basso all’altezza delle ginocchia. Apro, mi inginocchio e mi lavo così. Non lo vivo come un problema, sono abituata a lavarmi col secchio a Ukunda, figuriamoci se qui con un rubinetto nano mi metto a fare storie.

Finalmente pulita, mi vesto e mi catapulto fuori. Saluto Nicholas e gli dico che ci vedremo dopo. In strada ci sono ancora i bambini che aspettano. Credo di aver già trovato le mie guardie del corpo della zona.
A casa di Donatella riabbraccio Solomon, il piccolo masai, un bimbo così dolce che ogni suo bacio lo sento ancora oggi. E conosco Passanka, l’altro bambino di cui Donatella si prende cura.
Imparo subito quanto questa donna sia straordinaria e comincio a stimarla più di quanto si possa immaginare. Ha lasciato l’Italia per sposare un masai e successivamente ha deciso di occuparsi di Solomon e Passanka per dare loro una vita migliore di quella che avrebbero potuto condurre al villaggio masai. Li riempie di amore e di affetto ogni giorno e non manca mai, con ogni gesto, di dare loro i giusti insegnamenti.

Ci vuole un gran coraggio e forse una buona dose di incoscienza per prendere la decisione che ha preso. Sicuramente in tutti questi anni non ha avuto vita facile ma dovreste vedere con che grinta e con che forza di volontà affronta le giornate.
Solomon mi accoglie chiedendosi chi cavolo sono io. Non si ricorda minimamente di avermi già incontrata in Italia a Milano quando è venuto in vacanza con mamma e papà. Mi piace la sincerità di questo nano. Gli chiedo: “Ti ricordi di me?” E lui immediatamente dice: “no”. Eppure io mi ricordo tutti i bacetti che mi aveva dato al parco Sempione e quanto si era sorpreso quando gli ho parlato in swahili.

Donatella mi dice che sta andando in città e mi chiede se voglio andare con lei. Le dico di si, che voglio cominciare quest’avventura.

Mentre aspettavo Donatella fuori dal Barclays avevo mandato un sms a Willy dicendogli che ero arrivata a Malindi. E poco prima che salissimo sul motorello di Donatella, squilla il mio cellulare, è Willy. Gli dico che sto per andare in città e lui mi dice che è a Malindi pure lui. Ci mettiamo d’accordo per vederci. Fantastico, ho trovato qualcuno che mi farà da cicerone.
Salutiamo Nicholas e dopo aver baciato il piccolo Solomon saliamo in sella al ronzino rosso di Donatella.

Una buca dietro l’altra ripercorriamo la strada che porta in città. Mtangani mi piace proprio. Il centro è fatto da poche costruzioni tra cui un bar, qualche negozietto di frutta e alimentari vari, un paio di casette e niente più. Chissà quante volte hanno seguito con lo sguardo il motorino rosso della mzungu. E stavolta le mzungu sono due.

Arriviamo in centro al Bar Bar. Sono un po’ turbata perché dentro è pieno di italiani. Non entro. Dico a Donatella che aspetterò Willy la fuori, di non preoccuparsi e che ci vedremo di sera. Lei è tranquilla, sa che me la so cavare da sola e non teme per me. Lo vedo nei suoi occhi che sa che saprò tornare a casa senza problemi.

Ed ecco Willy arrivare. E’ curioso che ci si incontri proprio a Malindi. L’avevo conosciuto giovedì a Diani Beach sotto un temporale. Pioveva e io come mio solito non correvo per andare a ripararmi, no, passeggiavo lungo la spiaggia come se niente fosse. E lui era li che giocava a pallone con un amico. Mi ha fermata, abbiamo chiacchierato, mi ha chiesto cos’avrei fatto sabato e gli ho detto che sarei andata a Malindi.

Mi dice che probabilmente ci andrà anche lui a visitare la sua famiglia, ma che non è sicuro. Mi lascia il suo numero di cellulare e gli dico che lo contatterò una volta sistemate le mie cose a casa.

E eccolo, mi sorride da lontano, ci salutiamo, mi chiede com’è andato il viaggio e gli dico che sono un po’ stanca perché sono in piedi dalle quattro del mattino. Mi chiede dove voglio andare. Gli dico che non so assolutamente nulla di questo posto, per cui deve decidere lui dove andremo.
E andremo in spiaggia. Mi va bene, perché voglio proprio vedere la differenza tra la mia spiaggia e quella di Malindi.

Prendiamo un Tuk Tuk che ci porta fino all’ingresso spiaggia vicino al Ponte Vasco De Gama. La spiaggia è grigia e quasi deserta. Ci sono pochi ragazzi che giocano a pallone e alcuni che trainano un carretto pieno di legna. Saliamo sul ponte. Fa quasi freddo. C’è vento e ammetto che anche se la spiaggia non è come la spiaggia di Diani, tutto quel che vedo mi piace.
C’è una certa pace tutto intorno. Willy mi racconta la storia del ponte e di quando il Kenya era sotto dominazione portoghese. Mi dice che quel ponte aveva una grande importanza per il commercio. E’ curioso scoprire con quanta passione gli abitanti del posto ricordano gli eventi che hanno attraversato la storia del paese. In Italia non è così, mi dico. Io per esempio di Milano so poco e niente. E anche la storia della mia Sardegna mi è quasi ignota. Mi sento profondamente ignorante davanti a un ragazzo che ha avuto molto poco dalla vita e quel poco se lo tiene stretto nella memoria.

Willy è originario di Malindi. Fa parte della tribù dei Giriama. Vive a Ukunda da poco tempo perché sta facendo un corso di tedesco al centro linguistico. Sua madre vive in Germania. Ha sposato un tedesco qualche anno fa. Ha iscritto Willy a questo corso perché forse un giorno lo vorrà con lei in Germania. Gli chiedo se sua madre gli manca. E mi dice che la sente spesso, per cui hakuna matata.
Mi dice che lui canta in un gruppo e che spera che diventeranno famosi. Mi promette che mi farà avere un loro cd. E io non vedo l’ora di ascoltarlo.

Chiacchieriamo e il tempo vola. Gli dico che voglio vedere il villaggio dove vive. E subito prendiamo un Tuk Tuk in direzione Tsavo Road. E’ li che si trova il villaggio di Willy. Si chiama Majengo Mapya. Un posto che trovo bellissimo, immerso nel verde, le case fatte buona parte di sterco e terra e la gente che curiosa saluta a ogni angolo. Ecco, era questo che cercavo nella mia Malindi. Un posto simile a Ukunda dove respirare l’aria buona della mia Africa.
Una nuvola di bambini si crea immediatamente davanti alla porta di casa di Willy. Lo salutano con molto rispetto. Mi illudo che siano li per salutare la mzungu, e invece sono li per il loro cantante del quartiere. Si salutano con il pugno che batte sul pugno e poi va sul cuore, alla maniera dei rastaman accompagnato da “mambo poa” e “mambo poa kabisa”.

A casa di Willy c’è anche suo fratello e un suo amico. Mi accolgono quasi a festa e mi chiedono se voglio bere qualcosa. Dico che un bicchiere d’acqua è sufficiente. E mi dicono che la loro acqua a me farebbe male, per cui il fratello di Willy va a comprarmi una bottiglia da un litro. Che gentile.
La casa è più una camerata che una casa. C’è una cucina con qualche padella appesa qui e là, tre camere lungo un corridoio e una piccola saletta dove stanno tutti insieme.

Willy mi fa vedere la sua camera e vuole farmi ascoltare la sua musica. Il lettore cd non ha le pile. Manda subito suo fratello a comprarle. Quello che mi stupisce è come suo fratello esegua gli ordini di Willy senza batter ciglio. Si vede chiaramente quanto rispetti il fratello maggiore. La camera di Willy mi ricorda la casa di Juma di Ukunda. Ma è ancora più piccola e ti da un certo senso di soffocamento. Quella casa l’hanno costruita loro, con le loro mani. Willy mi mostra un album di fotografie dove ce ne sono alcune proprio del periodo in cui stanno costruendo la casa.
Mi stupisco che me le mostri. Sembra quasi che voglia dimostrarmi che non mi sta mentendo. Già, perché nelle nostre chiacchierate gli ho spiegato chiaramente che il 60% delle cose che mi dirà io le considererò bugie. Gli ho raccontato la mia teoria sull’Ukundiano applicabile a tutti i kenioti in generale. E lui ha riso come un matto. Però ha ammesso che quello che ho intuito del comportamento degli africani è proprio vero.

Suo fratello torna, bussa alla porta della stanza di Willy e ci da le pile. Ci ha comprato anche delle caramelle. Trovo questo gesto bellissimo, anche perché ce le da tutte e non ne vuole tenere neanche una per sé. E allora io gli dico che le mie le può tenere lui.
Finalmente possiamo ascoltare il cd dei GBT, il gruppo di Willy. Fin dalle prime note lo trovo stupendo. E sono sicura che faranno strada. E comincio a pensare a quando lui non vivrà più in quella sorta di capannone. Gli dico che quando avrà successo sarà pieno di donne che vorranno i suoi soldi. Lui ride e dice che quando avrà dei soldi, costruirà una casa per sua madre, così potrà tornare dalla Germania.

Ci sono parole di quella giornata che hanno scolpito il loro spazio nel mio cuore e non dimenticherò mai.

Si fa tardi e dico a Willy che è meglio che io vada a casa. Donatella sarà preoccupata.
Prima però voglio fare una passeggiata al villaggio. E allora salutiamo i suoi coinquilini e usciamo. Camminiamo parecchio per Majengo Mapya e arriviamo fino a Maisha Mapya. Mi sento così libera.
Sono venuta qui da Diani da sola e sto conoscendo la mia Malindi a modo mio. Sono orgogliosa di me.
Arriviamo fino a un piccolo lago dove le donne stanno facendo il bucato. Non oso scattare fotografie anche se tutto quello che vedo è bellissimo. Si sentono i loro canti e le loro risate. Sono bellissime, tutte chinate con quelle schiene che mai si spezzano, quelle schiene su cui portano il carico delle vite dei propri figli e delle proprie famiglie. Quelle donne forti, che vivono ogni giorno con il sorriso sulle labbra e con i pochi soldi che i mariti o compagni portano a casa.

Willy mi chiede cosa sto pensando. Glielo dico, e mi dice che io ho capito davvero molto della vita li da loro. Mi dice che mi rispetta, perché io rispetto le donne del suo paese. Mi dice che se voglio posso fotografarle, ma io non me la sento.

E’ davvero tardi, comincia a fare buio e la strada tra Maisha Mapya e Mtangani è davvero lunga. Mi dice che mi accompagnerà sul Tuk Tuk ma che devo dirgli io dove dobbiamo andare, perché lui non conosce Mtangani. Gli dico di stare tranquillo, che mi ricordo perfettamente la strada.

E così eccoci, sul Tuk Tuk a attraversare di nuovo Majengo Mapya e salutare tutti per le vie. Le strade di Malindi son quasi buie, il sole si è quasi addormentato e io spero con tutto il cuore di ricordarmi davvero come tornare a casa.

Dico all’omino del Tuk Tuk di arrivare fino al Bar Bar e da li saprò guidarlo meglio. Infatti una volta al Bar Bar per me le strade non hanno già più segreti. E in una ventina di minuti siamo davanti al cancello di casa.
Fuori dal cancello di casa di Donatella c’è l’askari. Solomon mi corre incontro e mi bacia come se non mi vedesse da una vita. Ma guardarlo, nel pomeriggio quasi non si ricordava di me, e ora mi riempie di baci come fossi sempre stata li con lui. Sale sul Tuk Tuk insieme a me e Willy. Willy ride, gli si presenta e anche con Solomon c’è lo scambio di saluti col pugno sul cuore. “Mambo?”, “Poa”.

Ringrazio Willy e ci diciamo che ci sentiremo domani.
Il mio primo giorno a Malindi è finito e io sono più che soddisfatta. Vado a lavarmi, e scopro che anche io ho un askari. E’ un masai bellissimo, che non parla, non sorride, ma si vede che vorrebbe ridere per quanto sono imbranata nell’aprire il cancello. Per entrare in casa devo usare tre chiavi. Una per il lucchetto del cancello principale. Una per il lucchetto del cancello che c’è sulla porta. E una per il lucchetto della porta.
Quello che mi da più problemi è il lucchetto del cancello principale. Ci metto una forza sovrumana per aprire e chiudere quel cancello.
Mi rendo conto subtio che la sicurezza in casa in un paese come il Kenya, è importante. E sono felice che la mia sia munita di tutte queste misure nonché della presenza dell’askari che starà li fuori ogni notte per tutta la durata del mio soggiorno. Sono pur sempre una mzungu.

Faccio la doccia, stavolta stando in piedi perché Nicholas ha prontamente provveduto a sistemare l’acqua della doccia, metto la crema, mi spruzzo autan in ogni dove e metto i jeans. Esco subito e vado da Solomon e Passanka che stanno guardando la TV. Donatella non è ancora a casa. Solomon va in fissa per i cartoni animati. Vuole guardare L’era Glaciale. Conosce le battute a memoria. E’ pazzesco. A un certo punto mi sento crollare. Sono in piedi dalle quattro del mattino e ho vissuto una giornata davvero intensa. E’ ora di salutare tutti e di baciarli sugli occhi. Buona notte bambini. Faccio di nuovo la lotta con i lucchetti, mando un sms a Donatella dicendole che sono a casa, che leggerò un po’ prima di dormire e che ci vedremo domani.

La notte è fatta di silenzi rotti da Tuk tuk e macchine che ogni tanto passano per la strada dietro la mia casa. Ogni tanto ho anche l’impressione di udire dei passi fuori dalla finestra. Ma è sicuramente un gioco della mia mente. Forse è solo effetto dell’inquietudine che tutti quei lucchetti mi hanno messo. Forse è l’askari che gira per il girardino o forse sono solo io che mi rigiro nel letto facendo rumore.

L’alba illumina immediatamente la mia stanza. Ho superato la notte incolume. Non mi è successo niente. Sono viva e nessuno ha scassinato tutti i lucchetti. Già, è così, probabilmente un po’ di paura ce l’avevo.
Sono le 8 del mattino e dalla casa di Donatella arriva qualche voce e qualche risata. I bambini sono già in piedi e io non voglio perdere un minuto di più.
Faccio la doccia, mi spalmo di crema, bevo un bel po’ d’acqua dalla bottiglia che Willy mi ha lasciato il giorno prima e prendo il Malarone.

Sono pronta per il mio secondo giorno.

Esco di casa, lascio le chiavi a Nicholas e vado a casa di Donatella. Mi prepara la colazione e ci sediamo fuori in veranda col piccolo Solomon che non sta fermo un attimo. Chiacchieriamo. Le racconto del giro che ho fatto nel pomeriggio di sabato, le chiedo se si può andare tranquillamente all’orfanotrofio che c’è li vicino e subito dopo colazione Solomon mi ci accompagna.
Entriamo e vengo accolta da 11 bambini festanti che parlano quasi solo Kiswahili. Ci sono anche tre donne che mi invitano a sedermi con loro. In una conversazione in cui pasticcio tra inglese e Kiswahili, faccio le mie solite duecento domande. Mi chiedono dove ho imparato a parlare la loro lingua e ridono di gusto quando gli dico che ho imparato da sola, con un libro e tanta buona volontà. I bambini si presentano uno per uno, e anche loro si divertono a sentire come pronuncio le parole in kiswahili.
Giochiamo un po’ insieme a acchiapparello. Ho tolto le scarpe per cui ogni tanto mi faccio male sotto i piedi, ma non importa. Le donne mi mostrano l’interno dell’orfanotrofio e mi dicono che i bambini vivono di quel che arriva dalla comunità e dalle donazioni dei pochi turisti che passano da quelle parti. Effettivamente Mtangani è un po’ fuori mano, e se non conosci la zona, difficilmente riesci a scoprire dell’esistenza di questa casa con 11 bambini da aiutare.

Solomon mi dice che devo andare con lui, che è il mio fidanzato e che sarà la mia guardia del corpo tutta la mattina. E così mi porta a spasso per le viette di campagna alla scoperta di tutti i fiori che gli piacciono e degli insetti più grossi. La gente che incontro si stupisce nel vedere sta mzungu in giro con un bambino piccolo. Una ragazza chiede a Solomon dove abita, forse perché vuole assicurarsi che io non me lo stia portando via senza il permesso della famiglia.

Faccio tante foto e comincio davvero a essere felice di essere partita alla scoperta di quest’altro mondo.
Torniamo a casa e mentre Solomon e Passanka si preparano per andare in chiesa, io sono pronta a andare in città di nuovo. Bianca mi manda un messaggio e mi dice che arriverà a metà mattinata. Sono contenta. Finalmente ci incontreremo.

John, il marito di Donatella, mi chiede se voglio andare a Malindi a piedi con lui. E io dico, perché no? Così posso vedere Mtangani con più calma. E ci incamminiamo. Nel tragitto sentiamo musiche venire dalle chiese vicine. E’ domenica e musulmani e cristiani sono tutti in chiesa. Anche gli 11 bimbi dell’orfanotrofio vengono accompagnati a messa. Tutti e 11 vengono caricati sulla jeep della signora Dora e via, si va in chiesa.
Incontriamo tanti bambini e io non posso fare a meno di fotografarli. Una principessa si avvicina a noi. Porta un piccolo cesto sulla testa. E non sta andando a messa, va a casa a aiutare mamma con le faccende.

John mi mostra un cimitero. Mi dice che in zona ci sono sia cimiteri musulmani che cimiteri cristiani.
Tra una scorciatoia e l’altra, tra un racconto e l’altro arriviamo a Malindi al Bar Bar. Prendiamo un caffè. Si dice così, ma in realtà io bevo dell’acqua e aspetto che Bianca si faccia viva.

E eccola, mi chiama, le dico dove mi trovo e ci raggiunge.
Ci baciamo e ci abbracciamo come se ci fossimo già incontrate prima. E in un batter d’occhio ci troviamo in giro per Malindi. Camminiamo molto e faccio qualche foto a edifici che attirano la mia attenzione. Intorno a noi tutto parla di Italia. Persino le insegne dei negozi sono scritte in italiano. Gli annunci di vendite immobiliari parlano italiano. Mi turba. Camminiamo per un bel tratto.

Andiamo in spiaggia, la stessa spiaggia in cui sono stata con Willy. E in men che non si dica due guardie del corpo si materializzano vicino a noi. Karisa, 20 anni, decide che la sua protetta sarò io, e Ali, credo di ricordare si chiami così, sarà a disposizione solo di Bianca.
Passeggiamo lungo la spiaggia grigia mentre il sole si nasconde tra le nuvole. Karisa parla e corteggia da 10 e lode, ma non ha idea che io conosco ogni sua parola anche prima che la pronunci. Gli metto in chiaro che un ragazzino di 20 anni appena conosciuto non può assolutamente provare quel che dice di provare. Parla immediatamente di amore. Ma come si fa? Come fai Karisa a credere che io possa crederti? Qualcuno ti ha detto che bastano tre parole per far colpo su una mzungu?

Parliamoci chiaro Karisa, hai 20 anni e io quasi 33, non mi conosci affatto e tra due giorni io me ne vado. Cosa potrebbe esserci tra noi?
Risponde candidamente che resteremo in contatto, che l’amore vero supera ogni distanza, che l’età non ha importanza, che l’amore non ha età e compagnia bella. Gli dico la mia teoria, senza usare mezzi termini.
Tu, Karisa, speri di trovare un’europea qualsiasi che creda alle tue parole e cada ai tuoi piedi come una pera cotta. Perché? Perché poi potrai raccontarle la tua misera esistenza in un paese senza troppe speranze, e lei, mossa a compassione, deciderà di mandarti dei soldi dall’Europa per farti vivere meglio.

Lui ride e mi dice che non è così. Che lui è diverso, che non ha mai chiesto soldi a nessuno. Gli dico, certo, non li hai chiesti direttamente, ma sicuramente con la storia della tua vita, una persona buona di cuore non può restare indifferente e è spinta spontaneamente a darti una mano. Tu punti su questo.

Ride ancora e mi chiede chi mi ha insegnato queste cose. Gli dico che le ho imparate col tempo. Che sarebbe bellissimo che un amore pulito e disinteressato potesse nascere così, all’improvviso tra due persone che non si conoscono, ma io non ci credo, non ci credo più. Ci scambiamo comunque gli indirizzi email, perché lui dice che mi dimostrerà che anche con la distanza si può far crescere un amore.

Nel frattempo vedo che anche Bianca e Ali si scambiano numeri e email. Io e lei ci guardiamo, ci diciamo due frasi di intesa scuotendo la testa, e vista l’ora, decidiamo di andare a mangiare.
Mentre prendiamo questa decisione, Karisa e Ali si guardano, come si guardano due che hanno fame anche loro, ma che sanno che non potranno mangiare perché queste due wazungu non hanno dato loro nessun affare, non hanno comprato ninnoli, non hanno chiesto di fare un safari, non vogliono braccialetti e compagnia bella.

Chiedo a Bianca se le va che vengano con noi a mangiare, che offro io. Lei mi dice che divideremo la spesa e che anche a lei fa piacere che vengano con noi. Sono contenta, glielo diciamo e loro sono felicissimi. Non se l’aspettavano di certo. E Bianca che conosce bene Malindi, propone di andare da Baharini. Non so dove sia, che cosa ci sia da mangiare, se è lontano, ma va bene.

Per ritornare in città, tra la spiaggia e la strada, in una sorta di campagna, incontriamo una serie di case popolate da infinità di bambini e donne che fanno il bucato. Non ti aspetti che esista una Malindi più piccola e soprattutto africana. E la trovi quando esci dalle strade asfaltate e trafficate. Mi fa pensare a Nairobi, a Kibera e a tutte le periferie delle grandi città che diventano inevitabilmente rifugio di quelli che non ce la fanno a correre insieme allo “sviluppo”, e devono stare a guardare ai margini, e vedere che mentre gli altri arrivano da qualche parte, loro sono fermi, impossibilitati a correre insieme a chi va avanti, e dimenticati dal mondo da cui sembrano esser scesi.

E’ così che stanno quelli che scendono dal mondo in corsa? Penso a tutte le volte che mi son detta “fermate il mondo, voglio scendere”. E eccoli, quelli che sono scesi, abbandonati al loro destino. Ma forse loro non sono mai riusciti a salire.

E mentre penso, siamo di nuovo tra le strade della città, dove trovi situazioni contraddittorie a ogni angolo. Ci sono sia negozi extralusso, fatti apposta per il turista ricco che può spendere tanti soldi anche nella sua Europa, sia le bancarelle che trovi a Ukunda, con la frutta, i vestitini per bambini, collanine, ciabatte e souvenir a misura “umana”.
Arriviamo al Baharini e ci sediamo. Bianca parla col cameriere e gli dice che vuole il solito. Mi fa pensare che è solita venire in questo posto. Le chiedo cosa è il solito, e mi dice che è Kima. Anche io voglio Kima, e anche Karisa e Ali vogliono Kima.

Vado a lavarmi le mani. Faccio la coda dietro un indiano e suo figlio, una donna enorme ma bellissima e una bambina con le treccine. Il posto mi piace molto. E l’atmosfera che si vive quando in Kenya si mangia, è bellissima. Si percepisce una sorta di ritualità e di sacralità del pasto. Respiro una certa consapevolezza della fortuna che si ha nel poter mangiare quando altri sicuramente stanno saltando il pranzo per ovvi motivi.

Arriva la Kima e io lascio da parte le posate e faccio tuffare la mia mano destra nella carne e la impasto con il riso. Karisa e Ali prendono le forchette con un certo imbarazzo e col fare di chi non è solito usare le posate. E io inizio a ridere. Gli chiedo se sono o no africani. Dico che possono mangiare anche loro con le mani, che non sono obbligati a usare le posate, che siamo in Africa e che tutti intorno stanno usando le mani, per cui è sciocco che loro due si sentano in dovere di mangiare con gli strumenti del mzungu. Ridono anche loro, e anche Bianca. Bianca mangia con le posate.

Dai tavoli vicini mi guardano e sorridono. E ricambio i sorrisi con le mie mani tutte sporche e saporite.
Chiacchiere, mani impiastricciate, risate, racconti delle nostre quattro vite così diverse, ringraziamenti. Bianca vuole pagare il conto. E ci riesce anche se io non voglio. Mi dice che ora siamo nella sua zona, che quando verrà a Ukunda mi farà fare gli onori di casa, ma che qui tocca a lei. Grazie cara, sei davvero un tesoro.

Usciamo dal ristorante e in quattro e quattr’otto decidiamo di andare a Watamu. E’ giusto che io veda anche Watamu. Karisa e Ali, da buone guardie del corpo ci accompagnano fino alla fermata del matatu per Watamu e aspettano con noi. Scatto qualche foto in questa Malindi nascosta, quella con le strade di fango e pozzanghere grandi quanto piscine, quella con i panni stesi all’aria aperta lavati da donne chine su quelle schiene forti. Comincio a pensare di aver fatto davvero bene a lasciare Ukunda per un po’. Ma non riesco a togliermi dalla testa tutte le cose rimaste in sospeso e che aspettano il mio ritorno.

Mi chiama Willy e mi chiede che programmi ho per il pomeriggio. Gli dico che sto per andare a Watamu, gli dico che se vuole può venire con noi, gli do due o tre coordinate per spiegargli dove mi trovo e in pochi minuti lui e il suo amico Tuimani si materializzano davanti a noi.

Che bello. Andrò anche a Watamu. Sono solo due giorni che sono qui e ho già visto tanti posti e immagazzinato tanti ricordi.
Il matatu è li che scalpita affinché noi ci saliamo sopra. Ed eccoci, io e Willy ci sediamo dietro e Bianca e Tuimani un sedile avanti a noi. Succede qualcosa di inspiegabile. Willy inizia a ringraziarmi per averlo invitato a questa gita. Mi dice che lui non è solito andare in gita, che non ha mai fatto il turista in vita sua, che le uniche volte in cui viaggia è quando da Ukunda deve andare a Malindi e viceversa.

Lo osservo molto durante il viaggio e scopro che come me si sorprende davanti alle immagini che il paesaggio ci offre. Mi sento una privilegiata. Sto osservando un keniota in “vacanza”. Mi indica piccole case nascoste tra gli alberi, mi dice che laggiù la casa sarà piena di bambini e si chiede se andranno a scuola a piedi. E’ pazzesco perché sono le stesse cose che mi chiedevo io prima che mi indicasse quelle abitazioni.

Il prezzo del matatu è 50 kshs. Bianca mi spiega che generalmente il prezzo mzungu è 70 scellini. Ma io ho deciso che pago africano. E l’omino che ritira i soldi non fa una piega.
Il matatu corre verso la destinazione che abbiamo scelto e la mente corre a Diani dove ancora non ho incontrato Ali, il bimbo che ho lasciato a Natale, senza madre, senza padre e senza troppe speranze.
La settimana che avevo appena trascorso in Kenya non mi aveva ancora fatto vedere il mio Ali. Sono preoccupata. E non so assolutamente come fare a ritrovarlo.

Willy mi osserva anche lui. Mi chiede cosa penso. E glielo racconto. Mi dice che se voglio, quando torneremo a Ukunda, mi aiuterà a cercare Ali. Devo ritrovare quel bambino.
Sette mesi in Italia in cui ho pensato solo a lui e a come fare per dargli una speranza in più rispetto ai suoi coetanei. Willy mi dice che anche lui ha dei fratelli che vanno alla scuola pubblica e altri che hanno dovuto lasciare dopo la Primary school perché in famiglia non c’erano abbastanza soldi per tutti.
Gli chiarisco immediatamente che io non sono li per salvare il mondo. Si, perché quando tu racconti a un keniano che vuoi dare una mano a qualcuno, quello ti chiede perché non gliela dai a lui, dato che è tuo amico.

Io di amici ne ho un po’ troppi a Ukunda. E non posso salvarli tutti. Ma so che posso aiutarli a aiutarsi. Per alcuni di loro l’aiuto consiste in invii costanti di denaro dall’Europa. Ho spiegato bene loro che io non ho soldi per mantenere tutta Ukunda, che quello che posso fare e che sto facendo dall’Italia è di aiutarli a stabilire un contatto con il turista che si reca nella costa, affinché il turista si fidi e si affidi a loro. Non posso fare altro.

Per i loro fratelli più piccoli sicuramente troverò un altro modo. E’ importante che vadano tutti a scuola. E la scuola ideale per un keniano è quella privata. E’ quello che voglio per il mio Ali. Voglio che la sua istruzione gli garantisca un futuro migliore. E allora quando tornerò a Ukunda penserò solo a questo.

Watamu

Arriviamo a Watamu. E’ diversa da Malindi. E’ sì più “moderna” di Ukunda, ma meno incasinata di Malindi. Ritrovo le mie pozzanghere e le strade fatte di fango. Ma mi sorprendo enormemente quando incontro un palo della luce. Si signori, un palo della luce come quelli che c’erano a Ottana quando ero piccola. Ottana, per chi non lo sapesse, è un piccolo centro della Sardegna in provincia di Nuoro. Quando dico piccolo, non sto esagerando. E’ proprio piccolo. E ci ho vissuto da che avevo 3 anni fino agli 11 anni. Ma questa è un’altra storia.

Insomma, questo palo della luce di Watamu è fatto in legno e i suoi cavi sorvolano il paese. Mai visto un palo della luce a Ukunda. Sicuramente c’è, ma in una zona in cui non sono ancora stata. Oppure non ci ho mai fatto caso. Insomma, non è che sto a cercare i pali della luce ovunque vado. Questo palo è degno di una fotografia.

Watamu è il regno di Bianca. Ogni vicolo è suo. Da ogni angolo vien fuori qualcuno che la saluta con estremo rispetto e affetto. E Watamu è anche regno di italiani. Si, i bambini non dicono jambo. I bambini dicono ciao. E non mi sorprenderei se a un certo punto mi parlassero in bergamasco.

Willy e Tuimani hanno una nuova luce in volto. Sembrano due bambini alla scoperta di un nuovo mondo. Continuano a abbracciarmi e stringermi a loro dicendomi grazie e che non dimenticheranno mai questa giornata. A me sembra di non aver fatto niente. Ma comincio a capire. Ripenso alle gite scolastiche. Quando ero alle elementari, ma anche alle scuole medie, non ho partecipato a tante gite scolastiche. Le ragioni erano molto semplici e mamma e babbo non si sono mai vergognati di spiegarmele. Il tutto si riassumeva in: “non ci sono soldi e quelli che ci sono servono per altre priorità”. Non capivo perché tutti i bambini della mia classe riuscivano sempre a andare in gita e io no. Mi chiedevo perché nella mia famiglia non c’erano abbastanza soldi e in quella degli altri bambini ce ne erano a sufficienza per mandare in gita anche gli altri fratelli.

Pensavo fosse una punizione di mamma e babbo per qualcosa che avevo fatto. Io ho sempre cercato di comportarmi bene. Anche se quando tiravo i girini con la fionda alle altre bambine non è che mi comportassi proprio da principessa. Ad ogni modo a un certo punto ho smesso di usare la fionda e in quarta superiore sono andata in gita pure io.

E la gioia che ho provato nel vedere posti nuovi credo fosse paragonabile a quella che leggevo negli occhi di Willy e Tuimani. Chissà, forse anche loro hanno sempre pensato che qualcuno lassù abbia voluto punirli e li abbia fatti nascere nella parte del mondo dove i bambini non vanno in gita.
Bianca ci porta in spiaggia. Una spiaggia di cui avevo tanto sentito parlare nei vari forum sul Kenya. E’ la spiaggia di fronte al Barracuda Inn e Aquarius. E sai che c’è? Mi ha fatto letteralmente cagare. Le ragioni? Più che ottime. Per arrivare in questa oasi tanto decantata da chi ci è stato prima di me, si passa per una stradina dove inizi a incontrare i primi venditori del posto. Nessuno ci importuna perché siamo con la regina Bianca, che detta così sembra una puntata di Fantaghirò. Insomma arriviamo a sta benedetta spiaggia e signore e signori, alla vostra destra potete vedere una serie infinita di lettini di plastica che sembrano fette biscottate con sopra spalmate le varietà di italiano medio che va in vacanza in Kenya e è convinto di aver goduto almeno in minima parte di quel che c’è in questo paese.

Donne di età diverse accompagnate dal giovane keniano innamorato, uomini in slip dai colori variegati, ce n’è uno persino pistacchio, che leggono i quotidiani rigorosamente portati dall’Italia per non dimenticarsi mai che loro sono italiani.
Guardo Willy e gli dico “mzungu” e scuoto la testa. Si piega in due dalle risate. E parliamo di quanto sia ridicolo vedere tutta questa gente a prendere il sole, convinta che il Kenya sia tutto li.
La spiaggia è piena di alghe. E quando dico piena, non sto esagerando.
Dieci a Zero per Diani Beach.

Al largo vedo un’imbarcazione carica di turisti che cantano Jambo Jambo e che probabilmente tornano dal Safari Blu. Sono infiniti turisti, di quelli che in Italia non accetterebbero mai di accalcarsi così, come clandestini sulle barche che arrivano a Lampedusa, per potersi godere una gita. Ma qui no, qui siamo in Kenya, hakuna matata. Mi fanno ridere quelli che fingono di adattarsi all’hakuna matata e poi arrivano in aeroporto a Malpensa e cominciano a prendersela perché i bagagli sono in ritardo. Dimostrano immediatamente di non aver imparato niente dai pochi giorni trascorsi in Kenya.

Passeggiamo tra le alghe, faccio qualche foto per non dimenticare quanto sia stata brava all’origine di tutto, a scegliere Diani per costruirmi il mio Kenya. Bianca mi legge negli occhi e annuisce perché sa perfettamente cosa sto pensando di quei cretini del Jambo Jambo.
Arriva tra noi Dasha, un ragazzo di cui si legge in tanti forum sul web, e che dovevo assolutamente conoscere perché ci tenevo a sapere come sono questi Vip di cui si parla tanto. A dire la verità mi aspettavo che arrivasse con un mantello rosso, una tutina aderente azzurra e una grossa D stampata sul petto. E invece è arrivato un ragazzo semplice, gentile, e anche timido. Ci siamo presentati, gli ho dato i saluti della sua mamma italiana e c’è stata la foto di routine per non dimenticare che ho conosciuto anche un Vip.

Avrei dovuto incontrare anche Thomas, un altro beniamino tra le italiane in vacanza, ma quel giorno era in safari e così c’è stato uno scambio di sms e ci si vedrà chissà quando.
La regina Bianca continua a essere omaggiata e venerata anche lungo la spiaggia. Mi sembra un po’ me a Diani. Con la differenza che lei è buona. Si, io non sono buona. E’ ora di smetterla di pensarlo. Io sono incazzata nera. Le ragioni? Molto semplici e già spiegate in passato. Ma si riduce tutto a una cosa che esigo dai ragazzi di Diani Beach. Esigo che muovano il culo! Si, si devono dare più da fare sul lavoro, e devono smetterla di pensare al guadagno facile che si ha regalando l’anima a un’europea di passaggio.

Decidiamo di andare a bere qualcosa. Per me bere qualcosa significa bere acqua. Si, perché se io non bevo acqua perdo le mie forze. L’acqua per me è come il barattolo di spinaci per Braccio di Ferro. Se io vado da qualche parte devo avere la certezza che ci sia acqua e carta igienica. Altrimenti me ne vado alle cozze.

Andiamo in questo bar di cui non ricordo assolutamente il nome, e mi viene in mente che devo cambiare i soldi. Bianca chiama uno dei suoi scagnozzi che prontamente trasforma i miei euro in scellini kenioti.
Dal bar osservo i tetti delle case di Watamu. Sono tetti in lamiera. Tanti tetti. In Kenya non avevo mai visto tanti tetti tutti insieme prima d’allora. Continuo a pensare che la mia Ukunda sia ancora la numero uno.
Foto di rito anche al bar. Bevo una bottiglietta d’acqua in pochi secondi. Parliamo come tra vecchi amici. E’ questa la magia di certi luoghi. Rende le persone amiche di vecchia data, quand’anche si conoscono da pochi giorni o da poche ore.

Bianca racconta di tutto quello che sta facendo con l’associazione Karibuni, e comincio a capire perché quando passa per strada lei, sia come passasse la Madonna.
Ci porta a vedere la sua casa. Stiamo li qualche minuto a chiacchierare e far passare il tempo. Le strade di Watamu sono popolate da tanti piedi scalzi. E a un certo punto anche i miei si confondono tra quelli degli altri. Le mie infradito si spaccano e da quel momento in poi sono la mzungu che cammina a piedi scalzi.

Il pomeriggio volge al termine e è ora di salutare Bianca, il suo fratello africano e il popolo dei piedi nudi. Willy e Tuimani abbracciano Bianca e la ringraziano per averci fatto da cicerone in una Watamu vista con i suoi occhi. Voleva portarci a vedere la discarica, e con tanto entusiasmo, ma non c’è stato abbastanza tempo. Rimandiamo la visita alle “meraviglie” che noi turisti lasciamo in Africa alla prossima volta.
Eccoci di nuovo sul matatu, Willy, Tuimani e me, mzungu senza scarpe. Li sento i commenti in Kiswahili e l’ilarità generale. Rido anche io e spiego che mi si sono rotte le scarpe. Alcuni si preoccupano e mi propongono di scendere fra qualche casa perché c’è uno che vende infradito a basso costo. Così non tornerò a Malindi a piedi nudi.

Li ringrazio, ma per me camminare scalza non è mai stato un problema. Quando facevo la marinaia sulle barche di Cala Gonone, i miei piedi hanno avuto calli che voi umani…

Sul matatu tutt’e tre stiamo in silenzio e assaporiamo il retrogusto di una giornata trascorsa insieme, all’insegna del relax e della scoperta di una Watamu non troppo europea, ma neanche troppo keniota. Ho visto i bambini di Malindi, ho visto i bambini di Watamu e ho visto i bambini di Ukunda. E quel che li accomuna è la speranza che per loro ci sarà veramente un futuro, un futuro migliore di quello dei ragazzi più grandi. Quello che mi sorprende sempre è la capacità di sognare che non abbandona mai i più piccoli. Se parli con un bambino di Ukunda scopri che ci sono in quei cuori, sogni comuni ai nostri bambini d’Europa. E non c’è il minimo segno di una preoccupazione per un futuro che forse non ci sarà.

Probabilmente è una cosa che si acquisisce crescendo. La rassegnazione e la consapevolezza di essere in un paese africano, con tutto quello che significa, sicuramente arriva quando ti rendi conto che mamma e papà non riescono a lavorare per darti da mangiare tutti i giorni. Probabilmente in principio lo trovi normale, e credi che in tutto il mondo i bambini soffrano di mal di pancia perché non hanno mangiato. Ma poi scopri i mzungu, e scopri che loro sono anche grassi perché mangiano troppo, vanno in vacanza negli all inclusive per mangiare 5 volte al giorno, e se ci fosse un sesto pasto, farebbero fuori anche quello. E allora ti chiedi perché tu non mangi neanche una volta al giorno, e quelli si abbuffano a più non posso.

E scopri che il mondo è spartito alla pirlona. Alcuni, con questa consapevolezza decidono di investire tutto nello studio e in quello che la cultura ti può offrire, altri abbandonano ogni speranza di crescita e si buttano in spiaggia a fare i Beach Boys, perché in qualche modo la famiglia deve avere qualche entrata.

E tante anime pulite si sporcano di sogni sbagliati.

Arriviamo a Malindi che è ormai sera. Io sono scalza ma felice perché ogni minuto trascorso anche in questo Kenya italiano, mi ha regalato molto in termini di scoperte. Willy e Tuimani ad esempio sono una bella scoperta. A piedi nudi cammino per una Malindi quasi buia, dove i Tuk tuk sono ancora in agguato e cercano clienti senza sosta. Ne prendiamo uno, e i miei due compagni mi scortano fino a casa.

A casa c’è Solomon che mi aspetta con l’ascari. Mi accoglie con tanta gioia, sale sul Tuk Tuk e abbraccia Willy e Tuimani come se fossero suoi fratelli. Pugno contro pugno e poi sul cuore e il piccolo-masai dal cuore rasta mi prende per mano e mi trascina via da quei due, come se a dire “ora tocca a me, voi ve la siete goduta tutto il giorno”.

La giornata è stata intensa, i miei piedi sono neri, la doccia mi fa scivolare di dosso tanti pensieri su quanto è diversa la vita qui a nord di Mombasa, e sono pronta per andare a giocare con Solomon in attesa che Donatella torni tra noi.
Il rombo del motorino rosso si riconosce anche a porte chiuse. E l’allegria di Donatella invade la casa immediatamente. Ecco che ha un racconto per me sul pomeriggio di Passanka.

Passanka viene dalla tribù masai di John. Donatella ha deciso di accoglierlo in casa per permettergli di studiare e vivere una vita con meno stenti e meno difficoltà. Domare una peste come Passanka è stata un’avventura, ma Donatella ce l’ha fatta. Quel che capita ogni tanto è che Passanka dimentica di dar retta a alcune raccomandazioni che mamma Donatella gli fa.

E così quel pomeriggio Passanka ha di nuovo dimenticato la bicicletta parcheggiata fuori. Quante volte Donatella gli aveva detto che non doveva lasciarla fuori, che gliel’avrebbero rubata, che doveva portarla dentro al sicuro. Niente, anche stavolta tutte le parole di Donatella erano finite chissà dove.

Ennò caro Passanka, non la passerai liscia. Donatella prende la bici di Passanka, senza che lui se ne accorga e gliela nasconde in camera sua.
E inizia a gridare: “Passanka!! Passanka!! Porta la bici dentro che lo sai, te l’ho detto mille volte, poi te la rubano!”
Lui va fuori e diventa bianco. Si, perché la sua bici non si trova da nessuna parte. Non rientra subito in casa, va a fare un giro intorno al quartiere per vedere se magari l’ha dimenticata da qualche altra parte. Niente. Si è volatilizzata. E ora come glielo dico a Donatella?
Torna in casa, e non sa come fare a confessare. Donatella lo guarda incattivita e da ottima attrice, gli chiede: “beh? Dov’è la bicicletta? Non dirmi che non c’è? Non dirmelo guarda!”
Lui: “No, non c’è… non so dove possa essere. L’ho lasciata fuori un attimo. Non c’è!” E’ sempre più bianco.
Donatella esplode come un petardo. Gliene canta quattro e anche di più. Solomon sa tutto, ma non dice niente al suo compagno di mille avventure. Ogni tanto sghignazza, e Passanka si sente ancor più umiliato e triste. Si rende conto di cosa vuol dire ora essere senza bicicletta. Dovrà ricominciare a andare a scuola a piedi. E non solo, dovrà anche accompagnare Solomon a piedi. E anche in chiesa, dovrà andare a piedi. E i libri pesano e lui sarà a piedi. E passerà tanto tempo prima che Donatella decida di prendergliene un’altra.

Ha quasi gli occhi lucidi, quando Donatella impietosita decide di mollare il colpo e di fargli sapere che quella era stata una lezione. E gli dice: “…e poi so anche che dovevi portarmi la pagella, e non me l’hai ancora fatta vedere. Hai da nascondermi qualcosa? Corri in camera tua e portamela qui. SUBITO!”

Passanka, oramai col morale sotto terra, striscia verso la sua camera e … E riprende colore. Vede la bici che Donatella aveva nascosto e il sangue riprende a circolare tra le sue vene. Ridono tutti, Donatella, Solomon e Passanka.
Capisce che da domani sarà meglio che porti dentro la bicicletta o rischierà un nuovo infarto.

Solomon ha assistito al racconto di Donatella e vuole aggiungere un po’ di colore. E a modo suo mi racconta la storia della bicicletta un’altra volta. E’ una storia molto più confusa ma molto più bella. I bambini le storie le sanno raccontare meglio. L’ho sempre pensato. Perché i bambini te le raccontano con il fare di chi ha visto con occhi puliti. E ogni loro storia sa di magia.

Vado a dormire. Domani sarà il mio terzo giorno a nord di Mombasa.

(to be continued)
Guardate il video qui sotto!