Me lo ricordo ancora.
Il 5 gennaio ho incontrato Eddy dopo qualche giorno che non si faceva più vedere in giro.Chi è Eddy? E' uno dei ragazzi samburu che seguiva le mie lezioni di italiano. Eddy si scusa con me per non essersi più fatto vedere da capodanno.
Mi dice che ha avuto la malaria e tutti quei brufoli che vedo sono dovuti alla malattia che gli ha procurato questo sfogo.
Mi racconta di quanto è stata terribile la febbre, dei dolori fortissimi alle articolazioni e mi chiede quanto è rimasto indietro con le lezioni.
La sua preoccupazione sono le lezioni. E io invece lo abbraccio chiedendogli se ora sta bene.
I samburu sono restii ai gesti affettuosi. Infatti Eddy si irrigidisce subito, ma mi accorgo che apprezza la mia preoccupazione.Mi dice che ora sta bene e che gli sono mancata, e che la cosa più dura è avere la febbre alta con sto caldo bestiale.Mi dice che secondo lui è stato punto la notte di capodanno. Eravamo insieme quella notte, al baretto del Two Fishes. Non eravamo al Kim4Love perché preferivamo meno casino e poter chiacchierare.
C'erano anche Ali, Saidi, Ali (tutti Ali si chiamano!!) e Mwenye.
Nessun altro di noi sembra aver avuto sintomi della malattia. Ci riteniamo salvi.
Ma poi tra me e me mi dico che le punturine che ho trovato sulla mia pelle probabilmente non erano della maledetta zanzara Anophele, gravida e infetta. Non potevo essere mica così sfigata!
Mi sento tranquilla perché ho fatto la profilassi. E allora prendo Eddy per un braccio, gli faccio cenno di sedersi e lui e Moses seguono le mie lezioni di quella giornata.
Martedi 22 maggio 2007
Una serie di episodi nel seguente ordine.
Faccio i miei soliti esercizi sulla sedia. Per esser più chiari, ci salgo sopra per 400 volte perché la uso come step per tenermi in forma.Faccio duecento addominali. Si, duecento.
Mi preparo un tea caldo alla Vaniglia.
Mangio mezza vaschetta di gelato all'amarena.
Nella notte tra il 22 e il 23 maggio sento arrivare una scarica di pugni sulla mia schiena. Mi sveglio e cerco il responsabile nella stanza. Mi rendo conto che forse era un sogno, peccato che i dolori sono pura realtà.Dolori fortissimi alle ossa, alla schiena, ai muscoli, al fegato, alla milza. Ora posso dirlo perché me l'hanno detto i dottori dove sono collocati fegato e milza.
Non do peso. Penso di aver esagerato con gli addominali, penso di aver esagerato con la mezza vaschetta di gelato all'amarena, penso di aver preso un'influenza causa aria condizionata in ufficio.
Ripenso al weekend al parco e al prato umido. Insomma, ho una certa età, forse saranno solo reumatismi.
Mercoledi 23 vado comunque a lavoro e i miei colleghi sono costretti a riportarmi a casa perché non respiro più dal dolore.
A casa misuro la febbre. 38.5.
Urino sangue. Parecchio. E penso che mi stanno arrivando le mie cose, per cui non ci do tanto peso. Prendo una aspirina C e mi metto a letto. Dopo un po' nessun dolore e la febbre scende. Svanito l'effetto della aspirina, tornano i dolori e la febbre sale più alta di prima. Prendo una tachipirina e dormo tutta notte tra un dolore e l'altro.
Giovedi 24 vado a lavoro prendendo aspirina C a intervalli di 4 ore l'una dall'altra. E così vado avanti per tutto il giorno. Le diagnosi dei miei colleghi sono le più disparate.
"E' sicuramente il nervo sciatico!"
"Hai l'appendicite".
"E' colpa dell'aria condizionata".
"Non c'hai er fisico".
Venerdi mi sveglio con una febbre a 39.5. Mi sento morire. E decido di non andare a lavoro. Qualcuno si improvvisa sciamano e oltre a un'infinità di frutta, mi porta a casa una bottiglia di aceto bianco.
Mi dice che dalle sue parti si usa fare i massaggi all'aceto per far sfebbrare. E così mi sottopongo a questo massaggio pur di guarire.
Nelle vesti di un sottaceto mi sento peggio. Oltretutto sono un sottaceto con la felpa. E' stato lo sciamano a impormela. Suderò meglio e più abbondantemente. Seguo qualsiasi consiglio perché mi sento morire.
Sabato risveglio con febbre a 41.7. Vomito la cena della sera prima. E mi sento più leggera. Ok, era un'indigestione. Mi tranquillizzo e mi rimetto a letto dopo aver mangiato una fetta di pane e nutella (l'unica cosa che riuscivo a mangiare senza poi rimettere) e preso un'altra tachipirina.
Al mio risveglio di sabato 26 maggio sento Enzo e lo supplico di portarmi un medico a casa. Lui mi mette in contatto con un esperto di malattie tropicali che mi diagnostica subito la malaria.
Si, a distanza di 4 mesi e mezzo è venuta fuori. Non ci posso credere, ma così è. Comincio a delirare. Dico a Enzo che probabilmente ho solo uno strappo muscolare alla schiena e che la febbre viene da un'infiammazione al nervo sciatico (me l'ha detto anche Augusto in ufficio, non può essere malaria!).
E inizio a fare stretching sotto i suoi occhi.
Per fortuna lui non mi da retta. Va in farmacia e prende una scatola di Clorochina.E finalmente inizio la cura. Mi dicono che ero li li per il coma cerebrale. Appena prese le prime due pastiglie di clorochina i brividi alla schiena scompaiono, e anche i dolori al fegato sembrano meno forti.
Nelle mie notti deliro in swahili. Compongo frasi perfette che ora non ricordo, e maledico tutti quelli che nella mia vita mi han fatto male. Me la prendo con quelli che mi hanno giurato affetto eterno e ora che sto morendo non sono qui vicino a me.
Non tremo più come una pazza e la febbre comincia a scendere. Prendo altre due pastiglie di clorochina sabato sera, due domenica mattina e due lunedi 28 mattina. E è passata. E' stata dura ma è passata. Ora sono dimagrita, sono ancora molto debole ma sono viva. I medici dicono che grazie al Malarone ho preso una forma lieve di malaria. Non oso immaginare come sarebbe stata una forma forte, perché già così mi sono sentita morire.
Mio errore è stato di non andare subito in ospedale ai primi sintomi, ma non avevo proprio pensato alla malaria a distanza di 4 mesi e mezzo dal mio rientro e invece è tutto vero quello che si legge a proposito di questa malattia: i tempi di incubazione vanno dalle 2 settimane ai 6 mesi e una profilassi aiuta a prendere una forma lieve di malaria se si viene punti dalla zanzara Anophele, incinta e infetta.
Gastrointerite e ragù
In tutto questo apro una breve parentesi.
Prima di cominciare la cura, sabato 26 viene a casa mia un'energumena della guardia medica. Si siede abbondantemente sulla sedia. (e ci tengo a precisare che il termine abbondante qui usato è un eufemismo).
E comincia a parlare.
Questa signora non mi visita, mi chiede solo che cosa mi sento, le dico che ho la febbre a 41.7, che è una febbre che sale e scende, che forse ho la malaria perché sono stata in Kenya qualche mese fa.
Lei comincia a scrivere su un foglio.
Senza avermi visitata questa cara signora mi diagnostica una gastrointerite, mi dice che prima di me ne ha trovate altre due con gli stessi sintomi (me li avesse fatti dire, magari), mi racconta che ogni volta che va in Sicilia prende la gastrointerite, mi dice che a agosto andrà a Courmayeur (non so neanche come si scrive) e che probabilmente prenderà la gastrointerite anche li.
Mi chiede di dove sono, visto che sembro somala. "L'ho notato subito il colore della sua pelle" - mi dice. E prima che riesca a spiegarle che ho preso il sole al parco Sempione proprio domenica scorsa, dove forse ho preso umidità e magari sto male per questo, comincia a parlare della cucina degli stranieri e delle puzze che vengono dalle case dei miei vicini. E dice "l'odore delle nostre patatine fritte sono tutt'un'altra cosa".
Ho temuto che da un momento all'altro si alzasse e mi preparasse qualche bruschetta.Le dico che sono sarda.
E la prima cosa che le viene in mente è: "ma voi in Sardegna ce l'avete il Ragù?"
Capodanno nel bush
I preparativi per il capodanno erano cominciati presto. Nei giorni che lo precedevano sono state messe lungo la spiaggia numerose torrette, una di fronte a ogni albergo. Da li sarebbero stati fatti esplodere i fuochi d’artificio alla mezzanotte per salutare il nuovo anno.
Il 31 dicembre i miei studenti sono proprio bravi. Hanno imparato “Buon anno nuovo” e “Felice anno nuovo” e non fanno che riperterlo a chiunque incontrino. Anche a tedeschi e inglesi. Io ho imparato “mwaka mpya mzuri”. E faccio come loro.
E’ straordinaria la gioia con cui aspettano l’anno nuovo. Sono sicuri che porterà loro la realizzazione dei sogni, finalmente. E di sogni ne hanno davvero tanti.
Anche io ne ho qualcuno, ma mi riservo di chiederne la realizzazione dopo che verranno realizzati i loro.
Al mattino vado al Papillon Lagoon a salutare Sylverster, Ben, Giorgio, Juma e Kennedy.
Nella quotidiana partitella a beach volley, dopo la quale, come al solito, ne vengo fuori con dei lividi ai polsi grossi così causa pallone troppo pesante e miei polsi troppo sottili, tutti sembrano più allegri.Mi dicono che quella sera vogliono assolutamente essere con me a mezzanotte. Mi chiedono dove mi troveranno e gli dico che sarò davanti al Safari Beach Hotel.
Mi dicono che se inizieranno l’anno nuovo con me vicino, gli porterà sicuramente fortuna.
Anche Kosovo mi da appuntamento a mezzanotte. E così so già che dovrò abbandonare i miei amici italiani per scappare in spiaggia a pochi minuti dal nuovo anno.
La giornata corre via tra un preparativo e l’altro, tra un appuntamento e l’altro. Anche al Safari Beach c’è grande fermento. I camerieri vengono istruiti affinché la serata sia perfetta e alcuni vengono a chiedere a me se le decorazioni mi sembrano a posto. Io impazzisco per le trombette che vengono messe davanti a ogni piatto. Non vedo l’ora di suonare la mia.
I tavoli per il cenone vengono disposti intorno alla piscina, al calar del sole tantissime candele si accendono e un’infinità di palloncini si tuffa in piscina.
Non ho un vestito speciale. Ho una canotta arancione e i jeans. Sono vestita così perché so che la notte la trascorrerò nel bush, e voglio essere coperta, almeno sulle gambe.
Nell’attesa che la serata abbia inizio, vado in spiaggia. Anche la spiaggia è illuminata, quasi a giorno. E è già colma di gente. La popolazione locale e i turisti si sono riversati li, quasi che sappiano che l’anno nuovo arriverà dall’oceano.
Incontro alcuni dei miei amici che stanno andando a mangiare qualcosa al Pavillon (Kim4love) e mi dicono che dopo cena saranno qui fuori a aspettarmi. Non vedo l’ora. Non sono mai stata così emozionata per un nuovo anno come stavolta.
Il cielo stanotte ha talmente tante stelle che probabilmente i fuochi d’artificio non riusciranno a superare tanta bellezza.
Non ho notizie di Juma da ieri. Abbiamo avuto una delle solite discussioni. Discutere con un keniota è come discutere con un sardo. E dato che sono sarda, e testarda, ogni volta che discuto con Juma anche solo per la scarsa importanza che da al futuro e alla necessità di risparmiare, finisce che per un paio di giorni non ci parliamo.
A dire il vero mi spiace non passare il capodanno con lui. Insomma è la mia guida spirituale in questo posto. Mi ha insegnato talmente tante cose su questo mondo dimenticato da tutti. Pazienza. Evito di pensarci per non diventare triste e la serata ha inizio.
Francesco della Phone&Go ha preparato una tavolata tutta per noi. Noi chi? In questa vacanza ho conosciuto praticamente tutti gli abitanti dell’albergo, e in special modo ho legato con un gruppi di ragazzi italiani particolarmente semplici e fatti a modo che piace a me. E la nostra tavolata si riempie di allegria in un batter d’occhio.
Le ragazze sono vestite tutte da gala. Io mi dico che vado bene così, con i miei soliti jeans, e con il mio sorriso. Gli uomini non hanno esagerato. Abiti normali. Non da festa insomma.
Lo staff dell’hotel viene a augurarmi il meglio per la mia serata e mi danno appuntamento a mezzanotte in spiaggia.
Fifty mi prende in braccio come sempre e mi dice “questa bambina deve fare gli auguri a me per primo stanotte!”.
E invece, dopo una cena che sembra infinita, abbandono la tavolata, scendo in spiaggia e sono le 23.55.
Incontro subito Saidi, Ali, Ali, Haida, Sam, Claus e Mike. Claus mastica miraa dal pomeriggio. Anche Haida. Non mi piace vederli così. Mi dicono che è capodanno, e che certe cose a capodanno sono concesse. E io rispondo “si, ma voi masticate miraa tutti i giorni! Ma lasciamo stare, le prediche le riprenderò dopo le feste”. E ridono.
Mi salutano tutti con gioia, mi chiedono dove sono gli altri, gli dico che vado a chiamarli perché sta per iniziare la gara di fuochi d’artificio tra gli hotel e in men che non si dica glieli mando.
In tutto questo, è mezzanotte. E son nel vialetto che porta dalla spiaggia alla piscina. Incontro Ismail e è lui il primo a cui do i primi baci del nuovo anno.
E’ uno scambio di auguri veloce perché sto correndo in spiaggia a vedere i primi fuochi.
Eccolo. Vedo l’omino che corre verso la torretta di fronte al Safari beach e va a accendere la festa.
Sono con Saidi e alle prime esplosioni tutta la spiaggia esulta, grida, si abbraccia e non smette di fare “ooooohhhhhh”.
Alcuni fuochi mi terrorizzano e urlo stringendo il braccio di Saidi quasi fino a fargli male. E comincio a urlare “dov’è il signore che ha acceso i fuochi? Dov’è? Io non l’ho visto tornare? E’ ancora li? Mioddio. Sarà ferito!!!” E Saidi comincia a ridere come un matto e mi tranquillizza dicendo che appena ha acceso i fuochi, quel signore se n’è andato.
Gli chiedo di giurarmi che è la verità. Dopo un po’ ci credo. Ma come ha fatto? Io non l’ho visto andare via.
Lo spettacolo è bellissimo. E i sorrisi stampati sui volti dei miei amici lo sono ancora di più. Li vedo così felici. Così spensierati. Sembra davvero che si aspettino moltissimo da questo nuovo anno. Mi sento tanto amata. Ogni volta che esplode un fuoco da una forma differente vedo che mi osservano per vedere la mia reazione e se apprezzo. E quando sorrido e strillo come una bimba, loro mi stringono e mi dicono “non aver paura, ci siamo noi”.
Ci sono anche i miei bambini di Ukunda che mi corrono incontro, mi baciano e mi abbracciano e strillano “mwaka mpya mzuri Roberta”. E io chiedo loro cosa ci fanno in giro senza mamma e papà a quell’ora. Loro mi tranquillizzano dicendo che tutti gli anni è così, che i bambini e gli adulti di Ukunda e Mwabungo, la notte di capodanno invadono la spiaggia e non c’è pericolo per nessuno.
C’è anche il bimbo Ali che mi dice che non ha mangiato niente per tutto il giorno. Che è li dalla mattina. Corro dentro e prendo di tutto. Bananine, pezzi di torta, acqua, pane e tutto quel che è avanzato e è trasportabile avvolto in un paio di fazzoletti. Incontro Ismail che mi dice che sono incorreggibile anche a quell’ora della notte. Scendo in spiaggia e distribuisco tutto tra bambini e grandi.
Sento Ali (grande) che dice a Saidi “Certo sarebbe un capodanno perfetto se potessimo brindare con una birra”. Non sa che ho sentito. Sparisco di nuovo, vado dentro l’hotel, e ritorno in spiaggia con due birre. Ali mi sorride e mi dice “tu mi leggi nella mente?”
E io: “no, ti ho sentito prima mentre bisbigliavi a Saidi i tuoi desideri e ho deciso che almeno uno potevo realizzarlo”. Indico anche Haida, Mike e Claus e dico: “ovviamente dovete dividerle con loro”.
Ridono. E i fuochi d’artificio continuano a illuminare la nostra notte. E non sono solo i fuochi del Safari Beach. Esplodono anche da tutte le torrette davanti agli altri alberghi.
E uno dopo l’altro arrivano tutti quelli a cui avevo dato appuntamento. Ci scambiamo gli auguri, ci riempiamo di baci e abbracci e ci diciamo “tuonane baadaye”, ci vediamo dopo.
Ognuno mi chiede se voglio andare a bere qualcosa con lui al Kim4love. Ma per non rischiare di lasciare qualcuno deluso dico che rimango li, e se ripassano ci risalutiamo.
Saidi, Ali, Haida e Mike riescono invece a convincermi a andare al baretto che da sulla strada del Two Fishes. E così ci incamminiamo prima lungo la spiaggia, dopo aver salutato i miei amici italiani che vogliono andare a dormire (la mattina del primo gennaio loro sarebbero partiti per l’Italia), e poi prendiamo la via dei boschi. E’ talmente buio che non si vede a un palmo dal naso. Ma loro vedono.
Come diavolo fanno a vedere nel buio? E la cosa sorprendente è che in quella vietta che attraversa il bosco è pieno di gente che va e viene, padroni di una strada che per me è invisibile.
Non resisto, frugo nella mia borsa e estraggo il cellulare. Il mio cellulare è uno dei più scarsi che si trova in circolazione. Non ha nessun effetto speciale, non fa foto, non manda mms, non ha colori. E’ come uno di quei vecchi computer con i fosfori verdi.
Ma una cosa fondamentale per questa notte ce l’ha. La torcia.
Quando l’accendo creo una risata generale. Saidi non può credere ai suoi occhi. Mi chiede “Cos’altro hai in quella borsa?”
E così faccio strada non solo a loro ma anche a tutti quelli camminavano alle nostre spalle. E quelli che ci vengono incontro riconoscendomi, cominciano a salutarmi perché riescono a vedermi. Creiamo un ingorgo nella strada stretta del bush, alcuni cominciano a lamentarsi da lontano, ma quando arrivano vicini a me cominciano a ridere “ecco chi è la responsabile di questo casino, the teacher!”.
Non dimenticherò mai quei minuti nel bush. Mi sono sentita a casa.
Al baretto c’è gente che balla. La musica è bellissima. Non è la solita musica del Kim4love. Le note sono di musiche tradizionali e anche i balli sono bellissimi. Ali mi chiede di ballare con lui. Mi dice che sarà il mio maestro.
Incontriamo Eddy che quella sera non indossa i suoi abiti samburu ma una maglietta bianca e i jeans. Gli chiedo dove sono la sua lancia e il suo arco. E ride dicendomi che la notte sul tardi sarebbe andato a Mombasa e in giro per Mombasa non poteva andare con abiti da samburu.
Passo il tempo tra una chiacchiera e l’altra. Saidi mi fa da guardia del corpo tutta notte. Mwenye viene a salutarmi e mi chiede come mai non c’è anche Juma. Gli spiego che non ho idea di dove sia. Qualcuno mi dice di averlo visto all’Ali Barbours. Non mi interessa, facesse quel che gli pare. E ridono, perché sanno quanto io e Juma discutiamo e nonostante tutto ci si vuole bene.
Ali balla tutta la notte. Alle 4 mi sento davvero stanca. Mi ha punto qualche zanzara. Ma non ci do peso, perché è una notte troppo bella per pensare d’aver avuto anche sfortuna.
Dopo esser riusciti a strappare Ali alle ultime danze, le mie guardie del corpo mi riaccompagnano a “casa”. Riprendiamo la strada del bush, sempre con la mia mini-torcia, altri incontri, altri saluti, altro ingorgo, altre risate.
La spiaggia comincia a spopolarsi. E la marea comincia a salire. Mi bagno i piedi, dunque le scarpe e anche i jeans. Ma non ha importanza. Sono così felice.
Prima di salutarci, fuori dall’hotel, Saidi, Ali, Ali(2), Haida e Mike mi cantano una serenata della buona notte.
In hotel vado da Ismail, Waziri e Fifty. Sto un po’ con loro. Li aiuto a ritirare le sedie e ci fermiamo a giocare a biliardo. Quando sto per addormentarmi su una poltrona decidono di spedirmi a letto. Buona notte a tutti, buona notte Ukunda, buonanotte Juma, buonanotte amici miei e grazie.
Affari e Polizia
Il primo dell’anno mi sveglio con ancora addosso le emozioni della notte precedente. Alle 8.00 sono già in spiaggia. Non ho dormito molto, ma non è importante. Di lunedì è previsto l’arrivo di altri turisti, e sarà per me una giornata molto impegnativa.
Dei miei amici trovo solo Juma (capitano dei dhow) e quello che ho sempre chiamato the King ma non ho mai saputo come si chiama. Mi arrabbio molto. Lo so, è capodanno e dovrei prendermela pole pole, ma quando è previsto l’arrivo di nuovi turisti, voglio che i ragazzi mettano il lavoro al primo posto. Vai a farglielo capire.
Saidi arriva alle 9.00 e mi dice che Ali sicuramente verrà nel pomeriggio perché troppo ubriaco dalla notte prima. Gli dico che alle 8.30 c’erano tanti nuovi italiani in spiaggia e che se li sono persi. E che ora staranno facendo il giro di prassi dell’albergo con l’omino della Phone&Go, per cui è probabile che hanno perso l’occasione di avere nuovi clienti. Glielo dico un po’ arrabbiata e lui mi dice che non devo preoccuparmi così tanto, che è la loro vita, che è incomprensibile perché me la prenda così a cuore.
Gli dico che loro hanno bisogno di una guida, che li metta ben bene in riga. Lui ride, ma io sono seria più che mai.
Arrivano alcuni miei amici di un’agenzia locale e mi chiedono subito di aiutarli per quella giornata che sarà molto lunga e piena di buoni affari se ci sarò io.
Ed eccomi, in veste di beach girl, a dare una mano ai ragazzi con i turisti italiani. Si, perché anche se ce la metto tutta nelle mie lezioni, quando si tratta di fare conversazione con gli altri turisti, loro non tirano fuori mezza frase di quelle che ho insegnato loro ma si limitano a ripetere la solita frase “italiani, non c’è problema”. Ma che cazzo! Tutto il mio impegno è finito nelle fogne di Ukunda. Lezione dopo lezione ogni notte hanno rimosso tutte le frasi di benvenuto, e compagnia bella.
E così chi ha bisogno di una mano, viene, prende la mia e mi conduce dal turista che ha adocchiato prima degli altri. Do il benvenuto, come fossi un’agente turistica, chiedo come è andato il viaggio, chiedo quanto tempo resteranno a Diani e se hanno intenzione di fare qualche escursione. Alcuni non sanno neanche cosa si può fare, e io comincio a esporre loro ogni cosa, dai safari, alla gita a Funzi, a quella a Wasini, visita a Ukunda, lingua di sabbia, visita nei boschi del Colubus Trust e compagnia bella.
Fortunatamente nessuno mi manda a cagare. Sarà perché sono bianca (mica tanto), ho un viso d’angelo e parlo italiano. Alcuni si convincono che ho un’agenzia turistica a Diani e che vivo li da sempre. Alcuni pensano che lavori per la Phone&Go e che mi occupo dell’accoglienza in spiaggia.
Ma quando spiego loro che si, alloggio nello stesso hotel da cui sono appena usciti ma che do solo una mano ai miei amici a guadagnarsi la fiducia dei turisti, non possono credere alle loro orecchie.
Sono tanti a dirmi che sono pazza, ma che dovrei lavorare al posto dell’omino della Phone&Go perché ho il sole dentro e si sente da ogni mia parola quanto amo quei posti.
E divento per molti una specie di punto di riferimento. Quando i turisti in hotel hanno difficoltà con l’inglese, mi chiamano per avere supporto, e quando i camerieri hanno difficoltà con l’italiano (sempre!), mi chiamano e finisce tutto con un Ahsante sana.
E il mio primo dell’anno trascorre tra una chiacchierata e l’altra con i nuovi arrivati che non fanno fatica a dare fiducia ai miei amici. Procuro così affari a tutti e tutti sono contenti.
Io non manco di ricordare di metter via i soldi guadagnati in quella giornata. Di non correre immediatamente a spenderli in birra e miraa. Ma come le mie lezioni di italiano, anche queste parole finiscono nelle fogne di Ukunda.
Finalmente ricompare Juma con un “I miss you”. Vorrei rispondergli di andarsene a quel paese, e invece gli dico che ne ho sentite delle belle su di lui e sul suo capodanno. Mi risponde pan per focaccia e per chiarirci ci diamo appuntamento al gate dell’hotel alle 20. Come al solito arriva in ritardo e andiamo al Kim4love.
Dopo una sana discussione, lui mi fa sentire in colpa perché mentre io mi divertivo con i miei amici nel bush di Diani, lui partecipava alla veglia funebre di Moddy, che proprio il 31 è morto.
Moddy e Juma a settembre lavoravano insieme per la stessa agenzia di safari. Un giorno mentre Moddy era alla guida, hanno avuto un incidente. Nessun turista era a bordo, ma Moddy si è fatto veramente male e con i mesi è peggiorato fino a lasciare questo mondo proprio il 31 dicembre.
Sono mortificata. Dico a Juma che non ne sapevo niente e che avrebbe potuto dirmelo, che l’avrei raggiunto ovunque fosse.
Gli dico che il 2 me ne vado a Wasini. Oramai ho pagato, oramai avevo deciso di allontanarmi il più possibile da Ukunda perché dovevo riposare anche io e perché dato che io e lui avevamo litigato, non vedevo nessuna ragione per stare nei paraggi. Inoltre quella giornata di public relation mi aveva stremata.
Mi supplica di non andare. Mi dice che il 2 avrebbe preso la giornata libera per stare con me, che avremmo noleggiato un motorino e ce ne saremmo andati a zonzo per conto nostro.
Non potevo tornare indietro sui miei passi. E avevo dato la parola al capo dell’agenzia a cui mi sono affidata, che tra l’altro mi ha fatto pagare pochissimo, soli 2500 scellini!
E così facciamo una passeggiata per la spiaggia. Ci ferma la polizia. Si, ci ferma la polizia. Per quale ragione? Semplice, Juma viene accusato di essere in giro con una bianca in una zona della spiaggia in cui a quell’ora non è permesso stare. La polizia di Diani Beach credo non sia differente da quella di tutto il resto del Kenya. Corrotta fino all’osso, spietata e con tanta voglia di mazzette. E così questi poliziotti che mi conoscono bene per varie ragioni, chiedono a Juma di sborsare 2500 scellini o lo portano dentro.
Credo di non aver capito bene. Chiedo: “Che problema c’è?”
Mi risponde la poliziotta dicendomi: “mzungu, don’t worry, it’s not your business!”
Juma mi fa cenno di non fare polemica perché sennò ci portano davvero via, e vedo che tira fuori i soldi dopo averci parlato per qualche minuto distante da me.
Mi arrabbio. Non stavamo facendo niente di male. E’ chiaro che gli hanno chiesto soldi solo perché io sono bianca. E mzungu anche per la polizia significa soldi sicuri.
Mi riprometto che al prossimo incontro con i poliziotti di giorno, ci scambierò due parole.
Che ho a che fare io con la polizia di Diani? Presto detto. La polizia in un primo tempo non vedeva di buon occhio il mio darmi da fare per aiutare i miei amici con il lavoro. Un giorno mi fermano e mi chiedono cosa sto facendo. Rispondo candidamente che sto chiacchierando con altri turisti italiani e chiedo se c’è qualche cosa di male in questo.
Mi dicono che si capisce benissimo che sto lavorando. Mi chiedono se ho il permesso di lavoro. Rispondo che io non sto lavorando, perché lavorare significa fare qualcosa e ricevere in cambio del denaro, avere un contratto. Io sto solo raccontando a dei turisti le bellezze del Kenya e li sto rassicurando sull’affidarsi alle agenzie locali. E nessuno mi paga per questo.
Ridono e mi chiedono inoltre quanto mi faccio pagare per le lezioni di italiano. Dico che le faccio gratis.
Mi chiedono chi me lo fa fare. Rispondo che sono in vacanza e ho deciso di godermela in questo modo. Dico che amo avere contatti con gli abitanti del posto e che fare tutto questo mi aiuta meglio a capirne la cultura e i comportamenti.
Mi sorridono e il poliziotto alto di cui non ricordo il nome comincia a chiamarmi “malaika”. Da allora mi tengono d’occhio. Capiscono che posso tornargli utile, eccome. Infatti ovunque mi trovino lungo la spiaggia, si fermano per salutarmi e aspettano che i miei amici facciano affari. Perché? Per chiedere dei soldi a quelli che non hanno la licenza di vendere. Già. Li minacciano che se non sborsano una percentuale dell’incasso, verranno arrestati. Col tempo mi rendo conto che la polizia chiede soldi anche a chi ha regolare licenza minacciando di trovare qualche problema comunque che li avrebbe condotti in prigione.
E così, nel mio intento di fare del bene, ho aiutato sia gli amici, sia la polizia a fare tanti soldi. Roba da matti.
Mi sento comunque protetta ovunque vado. La polizia bene o male sta dalla mia parte perché faccio comodo. Per cui quando cammino per Ukunda anche da sola, non ho paura, perché so che molti occhi sono su di me e in qualche modo mi proteggono. A volte mi sento una specie di “padrino” per il rispetto che avverto nei miei confronti.
Saidi e Ali mi dicono che a volte, se non ci fossi io, rischierebbero qualche notte di prigione. Ed ecco perché mi chiamano malaika, the queen e compagnia bella.
Juma non è contento di sapere cosa faccio durante la giornata. Mi dice sempre che non devo parlare con nessuno, che non devo fidarmi di nessuno, che tutta questa gente prima o poi mi chiederà dei soldi o tradirà la mia fiducia.. Rispondo che anche se mi verranno chiesti, io non ne darò, perché quello che vado predicando da che sono qui è che i soldi se li devono sudare. Io do una mano a procurare loro i contatti, poi gli affari se li devono sbrigare senza di me.
Wasini
Il 2 gennaio dunque parto per Wasini. Fuga da Ukunda. A Wasini ci sono già stata a agosto, e avevo voglia di riabbracciare i bimbi che mi avevano scortata per tutta la visita dell’isola.
Ricordo perfettamente il tragitto che porta da Ukunda a Shimoni, da cui prenderemo poi il dohw.
Shimoni pullula di gente. E’ un paesino nella polvere. E i suoi abitanti sono impolverati anche loro. Vorrei scendere per fare un giro, ma la gita non lo prevede. Chiedo a Billy se possiamo fermarci a prendere quaderni e vestitini in un bazar. Me lo concede.
Mi sembra di essere a Orune, un paesino della Sardegna noto quanto Orgosolo per gli omicidi e la criminalità. Mia mamma è di Orune. Ma non voglio andare fuori tema.
Gli abitanti ti seguono con lo sguardo finché non volti l’angolo e leggi nelle loro facce la curiosità nei confronti della mzungu, ma anche l’ostilità verso questi turisti che vengono, comprano quaderni e vestitini per bambini pensando così di risolvere gli enormi problemi di un paese come questo.
Mi sento terribilmente bianca. Si, la sensazione di non far parte di questi posti continua a accompagnarmi anche in direzione Wasini.
Sul mio dohw ci sono dei kenioti che vengono da Nairobi. Sono in vacanza dal lavoro. Si, lo so perché ci parlo subito, la mia curiosità non si ferma mai. Già, nella mia testa mi dico che dunque esistono anche alcuni kenioti che vanno in vacanza. A Ukunda credo che nessuno vada in vacanza. O meglio, non in vacanza come lo intendiamo noi occidentali. Alcuni se sono in “ferie”, vanno a Malindi a trovare la famiglia, oppure stanno a casa a dormire o al Masai Club a bere birra finché non finiscono i soldi che hanno guadagnato.
Ma torniamo all’escursione. Prima di approdare sull’isola, circumnavighiamo il parco marino di Kisite alla ricerca dei delfini. Li troviamo. Tutti fanno foto, ma io sono troppo presa dall’osservarli per concedermi di perdere tempo con la digitale.
Verso mezzogiorno faccio snorkeling con Masoud, che come tutti quelli che mi vedono nuotare sottacqua, si spaventa per tutto il tempo che riesco a stare senza respirare.
Masoud ha vent’anni e fa avanti e indietro tra Ukunda e Shimoni ogni giorno.
Mi promette che la prossima volta ci metteremo d’accordo, mi porterà a Shimoni e me la farà girare in lungo e in largo come si deve. E vuole farmi conoscere sua nonna prima che muoia.
Non perdo occasione di insegnargli qualche frase in italiano che può tornargli utile con il lavoro.
I miei compagni di viaggio sono tedeschi. E stavolta mi rompo presto di fare l’animatrice, preferisco farmi raccontare da Billy tutta la storia di Wasini, e da Masoud i pettegolezzi di Ukunda. Scopro davvero tante cose e l’escursione diventa davvero istruttiva.
Arrivati sull’isola facciamo un giro diverso da quello che avevo fatto a agosto. A agosto ci si era limitati a fare un giro in paese, poi per la troppa fame avevamo saltato il giro per il parco di mangrovie. Stavolta no, stavolta l’attraversiamo tutto. Si tratta di un parco popolato da mangrovie e da numerosi granchi con una sola chela grossa che gli abitanti dell’isola rivendono al mercato di Shimoni, quando questi diventano abbastanza grossi.
Billy racconta il ciclo di vita delle mangrovie e ci dice che con l’alta marea quello che a me sembra solo un enorme prato dove i granchi vanno a giocare, viene totalmente sommerso e la strada di legno che stiamo percorrendo, rischia di diventare impraticabile perché a pelo d’acqua.
Mentre io ho immagini nitidamente stampate nella memoria, i bambini di Wasini non si ricordano di me. Solo quelli più grandi mostrano mezza rimembranza, ma non importa. Non sono qui perché si ricordino di me. Gioco un po’ con alcuni che mi fanno da scorta per un lungo tragitto, e lascio i miei acquisti fatti a Shimoni, al centro vicino alla scuola. Spero vengano distribuiti. Si, il dubbio c’è sempre. Insomma, parliamoci chiaro, ogni giorno Wasini viene assalita dai turisti, per cui è chiaro che gli introiti ci sono. Possibile che la situazione in paese resti immutata nel tempo e anche questa volta l’alone di povertà che ci ho visto a agosto non sembra assolutamente volersene andare?
Io credo che come per i paesi occidentali ci sia tutto l’interesse a mantenere l’Africa così com’è, con la sua povertà, le sue malattie, la sua disperazione, così in Kenya e in particolare a Shimoni c’è tutto l’interesse a mantenere Wasini nello stesso stato di abbandono di sempre. Perché diciamocelo, la povertà fa colpo sul turista, e con il passaparola altri turisti verranno mandati li, e questo significherà altri soldi per chi lavora sui dohw, per il porto di Shimoni, per chi ti fa pagare i 200 scellini di ingresso al parco, per i “ristoranti” in cui veniamo mandati a pranzare, per le agenzie turistiche locali, per chi altri non lo so, ma non certo per gli abitanti dell’isola.
L’Ukundiano
Torno a Ukunda e poi al mio albergo triste e con la solita consapevolezza di essere in vacanza in un paese in cui niente cambierà mai. Niente. Questo anche per lo scarso impegno e la scarsa voglia del 90% dei suoi abitanti di rimboccarsi le maniche.
Finché si tratta di corteggiare una turista e renderla succube fino a farle perdere la ragione, sono tutti bravissimi e dimostrano un impegno fuori dal normale. Se si potesse assegnare un premio al miglior corteggiatore, sicuramente vincerebbe un abitante di Ukunda. Non mi permetto di parlare di tutta la costa Keniota, ma sicuramente c’è un giro di soldi tra Kenya e Europa che fa paura.
Non lo chiamo turismo sessuale. Non si tratta di persone che senza il loro consenso fanno sesso con qualcuno. C’è anche questo, e con minorenni. Ma di questo non voglio parlare ora. Probabilmente lo farò più avanti.
Insomma, parlo di un’enorme capacità dell’abitante di Ukunda nell’individuare una personalità debole, penetrarla fin nelle viscere e rendersi indispensabile.
L'ukundiano diventa una malattia incurabile, una sorta di droga che ti da dipendenza e da cui raramente c'è una via d'uscita.
Le parole che sanno usare per le strade di Ukunda sono meravigliose. Li ho sentiti i miei amici all’opera. Sono dei veri professionisti del corteggiamento. E ho conosciuto parecchie vittime negli ultimi tempi.
Perché parlo di giro di soldi? L’Ukundiano è un gran parlatore, ti racconta la sua triste vita, che per carità, è veramente triste, e tu, turista sensibile e predisposta fin dalla nascita a una vita da crocerossina, ti senti di dover fare qualcosa per quest’essere che con te è così gentile e ti parla con una dolcezza che non avevi mai incontrato prima. Gli devi salvare la vita, gliela devi per lo meno migliorare.
E così nascono delle storie d’amore. Si, è una particolare forma d’amore. Un tipo di amore in cui lui ti fa sentire la persona più importante del pianeta e tu in cambio gli dai la sicurezza che lui e la sua famiglia riceveranno ogni mese un aiuto economico da parte tua. Io lo chiamo amore, perché l'amore come qualsiasi cosa che diventa necessaria, crea dipendenza. L'ukundiano comincia a dipendere dalla mzungu e la mzungu comincia a dipendere dalla passione che l'ukundiano sa regalare.
Tu ami con tutto il tuo cuore, perché in Europa non trovi nessuno che ti faccia sentire così speciale quanto è in grado di farti sentire speciale l’Ukundiano. E lui non smetterà mai di darti quello di cui hai bisogno. Lui lo sa di cosa hai bisogno. Tu hai bisogno di non sentirti a pezzi. E lui ti fa sentire parte di un intero. Tu hai bisogno di non sentirti sola. E allora gli sms tra Kenya e Europa si moltiplicano in maniera esponenziale a ogni ondata di turisti e turiste che lasciano il paese.
Cominci dunque a prendere l'Ukundiano a piccole dosi. Dosi di due, tre volte l'anno in cui ti rechi in Kenya a respirare aria d'amore, quella che l'Europa ha inquinato da tempo immemorabile. E ti è sufficiente. Non ti senti in diritto di chiedere di più, perché sai che loro non possono dare di più.
Loro non mancano di far sentire la loro presenza con dolcissime parole che sono sufficienti a colmare tutti i vuoti che il mondo occidentale ti crea dentro.
Ogni tanto spariscono. E allora tu li giustifichi in tutti i modi. Si, ci credi se ti dicono che non hanno credito nel cellulare, a Ukunda c’è poca banda, è periodo di grandi piogge, la Celtel in questo periodo ha problemi l’ho sentito dire da molti.
E dimentichi che hai inviato dei soldi ogni mese per cui è impossibile che quel cellulare sia scarico. E l’hai sempre visto a Ukunda, quando finisce il credito, va sempre a comprare una ricarica. Come mai sparisce quando sei in Europa?
Le risposte reali possono essere diverse. Quella più gettonata è che quando lui sparisce, c’è a Ukunda una delle altre europee che lui fa sentire speciale quanto te e a cui giura amore eterno, lo stesso che ha giurato a te, per cui non può farsi sorprendere a mandare sms a te. I più furbi hanno più schede telefoniche, una per ogni amata. Così a ogni eventuale controllo del cellulare a cui per forza di cose prima o poi lo sottoporrai, tu vedrai che ha contatti con te e solo con te.
Un’altra risposta da non sottovalutare mai è che la sua vera donna, quella keniota con tanto di pargoli al seguito, è tornata a Ukunda a spendere i soldi che tu hai mandato, per cui non è necessario sentirti finché ci sono soldi e moglie che girano.
Poi a un certo punto ricompare. E ti dice che qualcuno della sua famiglia (generalmente la madre, perché la mamma è sempre la mamma e se sta male la mamma nessuno può restare insensibile), è stata male e ora servono dei soldi per curarla. Non ti chiede questi soldi, bada bene, ti dice soltanto che sta attraversando un momento di difficoltà in modo che tu possa capire la sua assenza. E tu glieli offri subito, come un imbecille, credi a tutto quello che ti dice, perché il suo sms finiva con un “i miss you so much, I wish you were here”.
Dopodiché, straordinaria ripresa dell’ammalata, ti dice che vorrebbe raggiungerti in Europa perché gli manchi troppo.
Tu dall’altra parte del pianeta impazzisci all’idea che quest’amore possa finire. E allora alle sue richieste di venire in Europa, rincitrullisci totalmente e lo inviti. Lo inviti e gli paghi tutto tu. Gli fai i documenti, gli paghi il passaporto, gli fai il biglietto e lo fai arrivare in Europa per farlo sentire meno solo e annoiato nel periodo delle piogge. E nel tuo paese lo riempi di regali, e compri di tutto anche per la sua famiglia, perché se lo meritano.
Un giorno scopri dell’esistenza dell’altra o delle altre, e ti senti crollare addosso il peso di una vita intera di delusioni e dolore. Ti senti cretina per aver sperato nell’amore con qualcuno di una cultura talmente diversa e appartenente a un mondo così lontano e disperato. E cerchi nelle parole delle tue amiche qualcosa che ti spinga a credere che con te è stato diverso, che l’altra è meno importante di te, che tu resterai per lui più speciale delle altre. Soffri perché ti fa male l’investimento infinito di sentimenti che in maniera più che spietata sono stati ridotti in briciole e niente. E nonostante questo speri che lui non sparisca dalla tua vita.
Alcune perdonano, perché l’ukundiano è diventato insostituibile e indispensabile. Per cui finiscono con sposare questo essere straordinario. Successivamente si ritrovano in casa anche la moglie e i figli kenioti che col tempo prenderanno potere e sperpereranno tutti i soldi dell’europea che in fin di forze mollerà tutto e tornerà in Europa.
Quando mi è stato chiesto: “mi piacerebbe venire in Italia! Mi ospiteresti se venissi?”
Ho risposto: “Se metti da parte i soldi e riesci a comprarti il biglietto, ti ospiterò volentieri”
A tutte le richieste di soldi da parte dei miei amici che comunque ci provano, non si sa mai che ricevano qualcosa pure da me, rispondo sempre che è dura anche la mia vita, che ho difficoltà di soldi pure io, e che dovevano pensarci prima delle grandi piogge a metter via qualcosa.
L’ultima mia risposta è stata:”mi spiace, non posso mandare soldi perché ho problemi con il lavoro ultimamente, non mi pagano da qualche tempo. Anzi, ti chiedo, se ne hai tu, di mandarmi qualcosa al più presto.”
Ovviamente nessuna risposta. Io so che la loro vita non è oggettivamente facile. Ma non tollerò l’idea che per venire fuori dalla loro condizione pensino che l’unica via sia quella di avere più relazioni “economico-amorose” in Europa.
Se tutto l’impegno che l’ukundiano mette nel mantenere un rapporto con ognuna delle europee che incontra e seduce, lo mettesse per crearsi un futuro reale nel proprio paese, le cose nella costa del Kenya forse cambierebbero. La cosa ridicola è che i soldi che ricevono dall’Europa innamorata, li spendono comunque in birra e miraa. Pochi privilegiati riescono a farsi regalare un matatu. Ma dico io, un matatu!!
E allora signore e signori innamorati, smettetela. Smettetela perché non state facendo bene a nessuno, neanche alla crocerossina vi abita. Sono davvero pochi quelli che hanno il senso del dovere e della responsabilità. Quei pochi non sono di certo venuti a chiedere soldi a voi. Quei pochi possono permettersi di prendere una vacanza e andare a Wasini in gita turistica.
Se vi capita di “innamorarvi” a Ukunda, che sia un amore fatto d’amore, e non di invii di denaro mensili tramite Western Union. Amiche, ce l’ho con voi! Si, proprio con voi!
Pensieri
Sogno davvero di vivere in Kenya, per quanto più ci vado, meno mi sembra realizzabile come sogno. Ci vogliono i soldi, e una gran pazienza. E soprattutto ci vuole il rispetto dei Kenyani. Se non ce l'hai, rischi anche la vita, oltre alla possibilità di avere un futuro di qualsiasi genere.
Spesso sono stata l'unica bianca tra le strade di Ukunda. E li sentivo tutti i "mzungu" sussurrati quasi con disprezzo. Si certo, con i giorni che passavano, è stato diverso, piano piano si sono abituati alla mia presenza. Ma non so in che misura si abituerebbero se mi ci trasferissi.
Non avrei mai detto, in passato, che il mio esser bianca avrebbe potuto essere un problema, per me, e per chi mi stava vicino.
Ho guadagnato la fiducia di diverse agenzie turistiche locali, ecco perché mi chiamavano "the queen". Ho procurato parecchi affari a tutti. Ma so in partenza che se dovessi mai chiedere un compenso per tutto quel che ho fatto per loro, troverei delle porte chiuse in faccia.
E' davvero difficile inserirsi in un mondo così lontano dal nostro. Per quanto siano meravigliosi i loro sorrisi, le loro strette di mano, i loro chiederti sempre "come stai?", lo spirito di sopravvivenza è più forte di qualsiasi sentimento verso il prossimo. E se io dimostrassi di voler "rubare" il lavoro, verrei tagliata fuori.
Il lavoro nella vita serve, qui in Italia e ovunque. Ma in Kenya se non lavori muori davvero. Oh, sono tornata più scoraggiata e molto più triste. Sebbene abbia potuto mettere un po' di radici nei cuori della gente che già mi conosceva, mi sento così triste. Sola e impotente. A Diani non è mai possibile stare soli.
Qualche volta mi è capitato di dirmi "sono qui da sola". Ma bastava incontrare lo sguardo di uno dei miei amici, che la sensazione svaniva in un batter d'occhio.
Così sola eppure così circondata di gente. Ho potuto constatare che anche molti dei miei amici sono veramente soli. Non si fidano di nessuno, e cercano di farsi le scarpe a vicenda. Sempre per il famoso spirito di sopravvivenza.
Ho tentato di trasmettere loro lo spirito di collaborazione, di gruppo. "Cercate di lavorare insieme, spartite i guadagni, non permettete al mondo occidentale di trasformarvi in egoisti. Se uno di voi non fa affari in una giornata, magari li farà domani, e dividerà il guadagno con voi. E voi dovete fare lo stesso. In questo modo sarete sempre sicuri di avere qualcosa a fine giornata"..
Com'è stato difficile cercare di far capire loro che se collaborano tra di loro tutto può andar meglio. E se imparano a fidarsi l'uno dell'altro, forse insieme potranno cominciare a fare progetti più seri per il futuro. L'egoismo non porta mai da nessuna parte. Se si è più di uno, si può pensare a un progetto più concreto. Da soli non si arriva troppo lontano. Ma è una battaglia persa. Il futuro per loro arriva a fine giornata. E domani è un altro giorno. Cercano di guadagnare il necessario per mangiare oggi, domani si vedrà.
Oh, mi serviva più tempo. Mi serviva più tempo. E purtroppo dovevo tornare in Italia per il lavoro. Non potevo rischiare di perdere il lavoro qui in Italia per cercare di insegnare a lavorare insieme in un altro mondo. Non sono mai stata invasiva, non ho mai preteso di dettare legge, ho solo espresso diverse considerazioni che hanno accolto bene. Non tutti. Purtroppo quando per tutta la vita si è pensato a sé stessi e solo al bene della propria famiglia, pensare di collaborare con altri diventa difficile.
Sono rimasta sempre più ferita dalle immagini dei bambini. Per quanto siano belli e sorridenti, e sempre pronti a trasferirti la loro gioia di vivere, rimanevo imbambolata a chiedermi quanto fosse ingiusta la vita, a chiedermi perché il mondo sia così mal spartito, a chiedermi perché si debba morire di mal di pancia, e perché la notte quella tosse durava così a lungo.
Dormire a Ukunda mi è servito a comprendere molte più cose. Di quanto le mamme siano forti e allo stesso tempo rassegnate.
Di quanto, nonostante tutto, mi sentirei di diventare mamma in un posto così ma non a Milano.
Di quanto mi senta inutile nei confronti di un paese per il quale non posso davvero fare niente. Niente.
Il Kenya non è solo bei sorrisi e hakuna matata. E' un dolore che è intriso nella terra e nell'anima delle persone che incontri. E "hakuna matata" non significa che i problemi non ci sono, ma solo che spesso preferiscono andare oltre e non guardarli in faccia.
Mi manca tutto, e soprattutto mi manca il tempo che non ho avuto, perché ho lasciato comunque troppe cose in sospeso, tra la gente.
(to be continued)