Ali
Avevo conosciuto Ali a agosto. E quando sono tornata la prima settimana di dicembre, è stato lui a riconoscermi e rincorrermi per salutarmi.
Stavo andando a nuotare da sola e sento una vocina urlare: “Robyyyyyyyyyyyyyyyyy!”
Mi giro, e lo vedo, lo riconosco e gli corro incontro. Mi abbraccia forte forte e mi dice: “allora è vero che mantieni le promesse”. Prima di andarmene a agosto, avevo detto a tutti i miei studenti che sarei tornata presto. Ed eccomi, di nuovo li. Gli chiedo se sta andando a scuola. Mi dice che si, che quando la scuola è aperta non viene in spiaggia ma va a studiare, perché lo sa quanto è importante per il futuro. E se lo ricorda bene che gliel’avevo detto anche io il primo giorno in cui ci eravamo incontrati a agosto.
Gli dico che sono fiera di lui. E mi racconta che ha dei progetti. Vuole andare al college e studiare per diventare una guida ai safari. Gli piace la savana. Ci è andato con suo padre una volta. E allora quando andrà alla secondary, si impegnerà per poter accedere al college. “Le guide guadagnano bene, e così non dovrò più venire in spiaggia. Tu lo sai che io vengo in spiaggia perché i turisti amano i bambini, e qualcosa lo ottengo sempre. Ma presto non sarò più un bambino. E sarà più difficile. Mia mamma non è contenta se vengo in spiaggia. A volte torno a casa con una maglietta nuova, e lei si arrabbia. Mi dice che non è così che ci si guadagna da vivere”
Gli dico che sua mamma ha ragione, e che capisco anche il suo cercare di vestirsi senza chiedere soldi a mamma. Dice che sua madre spera che trovi un buon lavoro e si sposi con una brava ragazza. Mi chiede se posso portargli una ragazza di tredici anni dall’Italia la prossima volta che torno. Così lui la porterà a Ukunda a presentarla alla sua mamma.
Ali ha tredici anni. “Mia madre è morta giovedì”, mi dice quando mi rivede nel periodo natalizio. Cerca di spiegarmi anche che sua madre aveva un cancro al fegato, e che tutti sapevano che sarebbe morta. Mi dice che ora è costretto a vivere con suo padre e la sua compagna. Questa donna non lo vuole, perché ha già dei figli suoi e non sopporta la presenza del figlio dell’altra donna di suo padre. E così Ali non mangia da giovedì. Mi chiede se può venire in Italia con me. Mi promette che sarà bravo. Gli dico che sono profondamente dispiaciuta per la sua mamma e che se vuole possiamo andare a parlare con la sua “nuova” famiglia insieme. Ali mi dice che se suo padre viene a sapere che lui parla di questioni di famiglia con i turisti, lo prende a cinghiate.
Mi dice “That’s life”.
Ne parlo quasi in lacrime con Juma. Juma mi dice di non credere mai a tutto quello che mi viene detto, che prima devo raccontare a lui cosa ho sentito, e lui indagherà per me. Mi dice che a volte da loro è normale mentire anche su queste cose, pur di avere un pasto a fine giornata. Gli dico che Ali mi sembrava davvero triste, e che non l’avevo mai visto senza il suo solito sorriso.
Andiamo per la spiaggia alla ricerca di Ali sicuri di poterlo trovare. Ultimamente è sempre li, anche perché è in vacanza da scuola. Riconosciamo la sua maglietta verde da lontano. E Juma va a parlargli chiedendomi di aspettare. Aspetto, vedo che anche il sorriso di Juma si spegne. Torna da me e mi dice che è tutto vero, che Ali non ha più la mamma.
Il miracolo della domenica
Ogni tanto mi ritagliavo un paio d'ore dopo pranzo per andare a giocare con le onde. Ed eccomi, sempre con una mano che tappa il naso perché sono incapace di andare sott'acqua senza tappare il naso, a cercare le onde più grosse per sfidarle.
La prima domenica di dicembre dopo un risveglio pieno di dolore per bugie che vengono smascherate, una mattinata in lotta con la proprietaria del Papillon Lagoon Reef, una lotta pomeridiana estenuante con l'oceano, ecco apparire cinque angeli venuti per salvarmi da quel sottile velo di tristezza che i vari eventi della giornata mi avevano messo addosso.
Sto uscendo dall'acqua e eccoli, mi guardano, li guardo, gli sorrido, mi sorridono, tendo la mano e in men che non si dica mi ritrovo dieci braccia intorno al collo e tanti baci stampati sulla faccia. Sono cinque pupi che al mio desiderio di stringer loro la mano hanno risposto positivamente con infiniti bacetti che non dimenticherò mai.
E cominciamo a giocare. Sono quattro bambine e un bimbo davvero formato ridotto. Si chiama Brian. E' il boss del gruppo. Decide lui che giochi possiamo fare.
Cercano anche di insegnarmene qualcuno, ma le mie mani non rispondono e invece di seguire i gesti che fanno gli angeli, ne fanno altri imparati chissà dove.
Gli angeli ridono come pazzi e Brian mi parla in swahili e si sbellica dalle risate.
La più grande delle bimbe traduce per me, e dice che Brian dice che sono un po' matta. Giochiamo a giro giro tondo, giochiamo a rincorrerci, giochiamo a saltare sulle onde che si abbattono su di noi. Mi si attaccano al collo, rischio anche di morire, ma sono felice. Soffocatemi pure, è così che ho sempre sognato di morire, tra una risata di un bambino e l'altra.
Mi insegnano a contare fino a tre in swahili e io insegno a contare fino a tre in italiano. E così prima che arrivi l'onda tutti insieme urliamo UUUU-NOOOOO, DUUUU---EEEE, EEEE...EEEEEE.... TR.... TRRRR....TREEEEE! E mi s'attaccano al collo, alle braccia, mi saltano in braccio e io devo essere forte, perché non voglio che affoghino.
A fine giochi mi vengono dei muscoli così.
Mentre ridiamo e io assorbo la loro purezza, arrivano degli amici italiani che neanche troppo sorpresi di vedermi in mezzo alla nuvola di bambini, si avvicinano con discrezione, per non spaventarli. I bimbi mi chiedono chi sono quelle persone. Faccio appena in tempo a spiegare loro che sono miei amici, che si lanciano di corsa tra le loro braccia e riempiono di baci anche loro.
Damiano è profondamente commosso. Dice di non aver mai provato un'emozione così grande. E capisco benissimo cosa intende.
Ecco che arrivano le mamme degli angeli, forse un po' preoccupate di tutti quei wazungu con cui giocano i loro figli. E parliamo e nel frattempo Brian mi tiene stretta la mano e dice qualcosa alla mamma che traduce per me: "finalmente ho trovato la mia fidanzata!"
Lo prendo a cavalluccio, e mai l'avessi fatto. Anche le altre quattro vogliono che le prenda a cavalluccio. E tutti a giocare con i miei capelli, perché non sono finti e non ne avevano mai toccati di così lunghi e morbidi. Sono sfinita? Si. Ma felice.
Karolina, la mamma di Karolina, mi dice che i bambini sono in vacanza da scuola fino al 6 gennaio e che hanno bisogno di una "baby sitter" per qualche pomeriggio e se mi fa piacere, dato che ai bimbi sono piaciuta....
Eccomi. Sono qui. Sono vostra. Contate su di me.
E così i miei pomeriggi si riempiono di manine, di bacetti e di abbracci. E questi 5 angeli diventano figli miei e di Roberto. Ma questa è una storia nostra.
Quando esco dall'acqua dopo aver stretto la mano a tutt'e 5, mentre torno a "casa", realizzo che se non fosse stato per loro, forse quella giornata sarebbe andata a finire in lacrime diverse, pesanti e sofferte. E invece ho finito per lavarmi di lacrime di tenerezza.
Devo imparare a credere ai miracoli.
Questo mi dicevo mentre andavo in stanza a farmi la doccia.
Ukunda
A Ukunda la notte è lunga. Per me è lunga, ma Juma dorme come un sasso.
Ascolto i suoni che vengono da fuori. Fino a un certo punto della tua vita pensi che le notti africane siano silenziose. E invece a Ukunda la notte è viva e racconta molte cose.
E’ una notte che arriva presto. Alle 19 le candele delle case del quartiere di Juma si spengono. Solo qualche luce arriva da quelle abitazioni che hanno anche l’elettricità.
E se sbircio fuori, vedo che i bambini di quelle case scrivono, fanno i compiti, giocano a rincorrersi intorno al tavolo mentre la mamma cerca di convincerli a andare a dormire.
Presto la coperta del cielo stellato si stende su di loro. Un cielo sempre così vicino e rassicurante.
Le loro risate sono una dolce ninna nanna. Ma nonostante le loro musiche, tengo gli occhi aperti, e le orecchie tese.
Riesco a sentire le porte delle case che si chiudono quando i mariti tornano a casa tardi dopo una giornata lunga e sicuramente senza grandi guadagni. E immagino gli sguardi delle donne, severi, che rimproverano gli uomini per non aver fatto abbastanza, per non avere ancora trovato il modo di garantire un futuro ai propri figli. Il futuro. Cos’è il futuro per loro? Esiste un futuro nei loro pensieri?
Quelle donne che ingoiano bocconi amari, che stanno zitte quando a tavola non c’è da mangiare, che avrebbero forse preferito prostituirsi per garantirsi un futuro migliore, che sorridono a denti stretti quando i turisti regalano caramelle e oggetti ai propri figli, cose che loro non possono permettersi, perché la prima cosa è la sopravvivenza.
Riesco a sentire la tosse del figlio della vicina di Juma. Tutte le notti. Incessante. Una tosse che non abbandona nessuno dei miei sonni.
E al mattino non la sento più. Sento i piedini di questo pupo correre verso la porta della casa dove ha dormito la mzungu (donna bianca).
La luce del mattino a Ukunda non arriva lentamente. Alle 6 è giorno. E’ giorno perché il sole riempie immediatamente la stanza, e dai vicoli spuntano persone come fossero funghi, come fossero rimaste appostate tutta la notte, nascoste nel buio, in attesa della luce. E le strade si popolano, e le radio si accendono sintonizzate sulle news locali. E cominciano a sentirsi le musiche.
Ma prima ancora si sentono tanti piedini scalzi correre per il giardino.
Nei due viaggi di dicembre mi capita di dormire spesso a Ukunda. Quei piedini si fermano sempre davanti alla porta di casa di Juma. E sono piedini interrogativi. “Ha dormito bene la mzungu?” Questo si chiedeono. Mentre Juma continua a dormire, io apro la porta, lascio entrare l’aria del mattino e batto cinque a tutte quelle manine. “Jambo mzungu, jambo jambo”.
Le loro mamme fanno il bucato da non so che ora. Il vicolo è bagnato di sapone e acqua. E profuma di pulito.
I primi giorni leggevo nei loro occhi quasi di compassione nei loro sguardi. “Eccola, un’altra che si fa abbindolare dai nostri uomini”.
E nella mia testa non faccio che ripetermi “Sono terribilmente bianca”.
Si, sono bianca e lo possono vedere tutti. Me ne accorgo da come mi guardano. E lo sento sussurrare per tutti i vicoli di Ukunda. Mzungu. Quando cammino con Juma per le strade sento gli occhi degli abitanti del posto trapassarmi come lame.
Eccola, la donna bianca. Lei si crede fortunata, è nata nella parte del mondo dove la gente non cammina scalza per le strade, dove le strade non sono fatte di fango, dove gli uomini hanno meno paura delle malattie veneree, dove l’Aids fa meno stragi. Cosa vuole qui? Perché non resta nel suo mondo fortunato?
Sono terribilmente bianca. Non serve che io cerchi di mimetizzarmi tra la gente. Sono come uno di quei galleggianti fosforescenti che i pescatori usano la notte per vedere quando i pesci abboccano. Impossibile non vedermi.
I bambini sono i primi a farmelo notare. Mzungu. Mzungu. Mi guardano, ridono e corrono a nascondersi dietro la gonna di mamma. E la mamma mi sorride, e sento che sussurra qualcosa alle amiche. E distinguo perfettamente la parola mzungu. E’ inevitabile impararla quando si va in Kenya e si sta tra la gente dei villaggi.
Sono un’intrusa. Stono completamente con la popolazione locale. Faccio fatica a guardare la gente negli occhi. Mi sento fuori posto. Questa sensazione mi ha accompagnata per un po’ e confesso che non mi ha ancora abbandonata.
Col passare dei giorni lo sguardo della gente e delle donne cambia. Diventa uno sguardo di rispetto e mi salutano sempre con un sorriso e con gioia, felici di vedermi.
Ma resto comunque terribilmente bianca. A chi voglio darla a bere?
A casa di Juma non c’è un bagno, non c’è l’elettricità, né l’acqua corrente. Esiste un bagno di quartiere. Si, un bagno di quartiere. E ne faccio conoscenza la prima volta che dormo a Ukunda.
Al mattino prendiamo un secchio colmo d’acqua, con un pentolino, e andiamo a lavarci. Raggiungiamo una porta di legno, entriamo e la chiudiamo alle nostre spalle con un gancetto di ferro.
C’è un water basso su una specie di gradino. Per terra è tutto bagnato. C’è odore di urina e gli scarafaggi fanno a gara per correre a salutarci. Ci sono anche le formiche.
Juma mi guarda quasi per scusarsi ma io gli chiedo di gettarmi l’acqua fredda addosso, o ora o mai più. E’ così che devi fare, perché se ti bagni gradualmente finisci che non ti lavi più perché ti viene troppo freddo.
E mi sveglio di colpo. E mi accorgo che in questo bagno c’è anche una finestra enorme che da sul mondo, senza tenda, senza vetro, senza zanzariera, e i bambini mi salutano da fuori.
Mi ero sempre chiesta come fossero i bagni di Ukunda. Ne parlavo proprio con Anthony nelle mie vacanze di Agosto. Bene, a dicembre l’ho scoperto.
Sono terribilmente bianca. Ma le donne apprezzano che mi adatti alla vita di quartiere. Ogni tanto mi regalano una banana e la divido con Juma. E apprezzano anche questo. La legge della condivisione.
Dopo la doccia, andiamo a prendere il matatu. Non saliamo mai su quelli mezzo vuoti perché sappiamo che se sono mezzo vuoti dobbiamo aspettare che si riempiano prima che partano.
Aspettiamo quindi il primo matatu pieno zeppo, ci incastriamo tra la gente e andiamo. Andiamo, mentre le musiche ci accompagnano a tutto volume e le persone hanno lo sguardo fisso sui sedili e si preparano alla giornata lavorativa. Quando salgo sul matatu quello sguardo resta fisso sul sedile per poco, perché mi vedono, mi scrutano e non possono fare a meno di cogliere che sono bianca. L’unica bianca sul matatu alle 8.00 del mattino. E non viene dalla spiaggia. Viene da Ukunda. E le loro teste si riempiono di domande. Io sorrido e loro ricambiano con cortesia.
Andiamo a far colazione al bar Tanduri. A volte nel bar che c’è subito dopo. Juma li chiama ristoranti.
La cameriera del bar i primi giorni mi guarda con la stessa curiosità di quelli che m’han vista sul matatu alle 8 del mattino. Non parla con me direttamente. Chiede a Juma cosa prendiamo e io lascio che sia lui a decidere anche per me. Parlano in swahili e io mi sento esclusa. Esclusa e bianca. Anche quando si ordina la colazione.
Io bevo caffelatte e lui prende una frittata, delle fette di pane con margarina e latte con pochissimo caffé. Il caffé è quello solubile della Nestlé.
La colazione è un momento importante. Si fa tutto con calma. Non importa se lui è in ritardo al lavoro. La cosa più importante è mangiare e gustarsi il cibo perché fino all’ora di pranzo non si mangerà altro. Fa un caldo terrificante e il bar è pieno di mosche. Sono sudata e il latte è davvero caldo. Gli altri tavoli sono popolati da uomini soli. Alcuni fissano il vuoto, altri seguono la musica muovendo la testa a ritmo, altri fissano noi, una bianca e un digo a colazione insieme.
Chiacchieriamo del più e del meno. Lui mi chiede sempre se è tutto a posto e se c’è qualche problema. Gli dico che è tutto a posto, ma che m’accorgo di essere scrutata con sospetto più che con curiosità.
Io sono incuriosita da quel che succede fuori. Vedo bambini che da fuori cercano di sbirciare dentro il bar per vedere la mzungu che fa colazione. Sorrido e mi sorridono. Quando esco dal bar vengono a battere cinque sulla mia mano bianca. E scappano ridendo come pazzi.
Col passare dei giorni divento una cosa normale. Non sono più un fenomeno straordinario e non desto più tanta curiosità. La gente comincia a abituarsi alla mia presenza. La cameriera del bar sa cosa prendo per colazione e mi porta il caffelatte senza che io lo chieda. Juma si stupisce e mi dice che i bianchi non sono accettati da tutti in paese.
Sono terribilmente bianca. E non posso farci niente. Il capo di Juma lo licenzierebbe se lo incontrasse per le vie con me. Incontriamo i suoi colleghi e lui chiede loro di non raccontare niente al capo.
Dopo la colazione è immancabile la passeggiata lungo la strada del mercato. Le serrande, se così si posson chiamare, vengono tirate su, le radio vengono accese e ogni bazar ha i suoi suoni e i suoi colori. Hujambo Roberta? Sijambo sana.
Si, la gente comincia a abituarsi a me. E mi riconosce. E spesso anche da lontano mi chiamano per sapere come sto, per sapere se ho dormito bene e che programmi ho per la giornata.
Juma non vuole che parli con tutta Ukunda. Dice che non devo fidarmi di nessuno. In principio non capisco cosa intenda con questo suo mettermi in guardia. Ma col tempo capirò.
Spesso alla sera andiamo all’African Port. E’ un bar dove è possibile guardare le partite di calcio. Ci sono due megaschermi e tante sedie di plastica. A Ukunda gli uomini vanno pazzi per il football. Sono sempre l’unica bianca all’African Port. Le donne di Ukunda che di solito incontro li, mi guardano con curiosità in principio, ma anche loro con il passare dei giorni mi accolgono nel gruppo. E allora tutti a seguire la League inglese. Io tifo Arsenal. Juma tifa Chelsea. Quando il Manchester segna contro il Chelsea tutto il bar esulta e ride, e tutti saltano in braccio a Juma perché la sua squadra sta perdendo. Una sera anche io applaudo, perchè l’Arsenal segna, vince e il Chelsea perde. E tutti ridono con me e esultano con me. E mi sento finalmente parte di un intero. Quanta gioia durante le partite. Osservo gli spettatori e penso che tutti quegli uomini sono stati i bambini che un tempo regalavano sorrisi a turisti come me. Bambini che avranno lasciato il segno nel cuore di tanti wazungu. E ora sono uomini, degli uomini che continuano a mantenere una luce intorno che a noi wazungu manca.
Funzi
L'avevo deciso nelle due settimane di pausa tra il 9 e il 25 dicembre. Il 26 dovevo per forza di cose andare a Funzi.
Non ci ero stata né a agosto, né nella prima settimana di dicembre.
Per cui il 25 sera, alle 21.30 circa, sento una mia amica che alloggia al Diani Sea Resort che mi dice: "Roby, Daniele va a pesca domani, e io non ne ho voglia, posso venire con te a Funzi?"
E io: "Certo, fammi fare una telefonata e ti faccio sapere se c'è posto per due!"
Mi dicono che si, c'è posto. Avviso Valentina e lei mi dice che non può venire perché sennò Daniele si arrabbia.
Sai che c'è? Io vado lo stesso. Da sola. Tanto qualcuno lo conoscerò per strada.
E avverto l'agenzia locale che sarò da sola.
Alle 7.00 del 26 sono al gate del mio albergo in attesa del pulmino per Funzi. Non provo nessuna emozione. So solo che sono contenta di essermi organizzata comunque.
So che a Funzi ci sono i coccodrilli. Ma sento che non ne incontrerò. E' un po' come il dugongo della spiaggia di Abu Dabbab di Marsa Alam. L'hanno incontrato tutti, tranne me.
In pulmino con me c'è una famiglia di francesi e una coppia di danesi. E così, i francesi non parlano inglese e i danesi non parlano francese.
La mia giornata trascorre in un mal di testa generale nei miei tentativi di riesumare il mio francese e il mio inglese, per non parlare dello swahili che devo recuperare dalle mie giornate in spiaggia e sfoggiarlo con la guida.
Grasse risate.
Passiamo prima per Ukunda a fare rifornimento di benzina. I miei bambini mi riconoscono e vengono al pulmino a salutarmi. Juma è al bar che fa colazione. Mi vede e passa a augurarmi "siku njema, tuonane jioni". Buona giornata, ci vediamo stasera.
Nel tragitto tra Ukunda e Funzi il paesaggio è sempre mozzafiato. Incontriamo bambini sulle spalle di bambine che camminano verso chissà quale meta, pastori con le loro capre, mucche magrissime, tuk tuk con 7 persone aggrappate ai lati, matatu che corrono all'impazzata a raccogliere i primi lavoratori del mattino.
In viaggio parlo solo io. Racconto ai francesi in francese e ai danesi in inglese le mie avventure dei primi giorni di dicembre e del mio safari di agosto. Mostro loro le foto, racconto cosa andremo a vedere a Funzi, come se fossi una guida turistica.
L'autista e la guida mi ringraziano. E mi regalano due banane da mangiare in viaggio.
A un certo punto si è costretti a prendere una strada sterrata e anche piuttosto fangosa. Probabilmente la notte prima nei pressi del fiume Ramisi aveva piovuto e le acque hanno straripato.
Lamentele generali per la strada dissestata, ma io continuo a sognare a occhi aperti. Per me è bellissimo. Sembra di stare sulle giostre.
Eccoci finalmente a prendere la nostra imbarcazione. Che roba, se ci ribaltiamo con quella in mezzo ai coccodrilli, col cacchio che ne usciamo vivi.
Cominciamo la risalita del fiume in mezzo alle mangrovie. Vediamo tanti martin pescatori, tanti altri uccelli, ma i coccodrilli sono in sciopero. Delusione generale. Ma per me è un gran sollievo.
La barchetta è più piccola di quella di mio babbo. E la corrente del fiume è forte. Un po' di paura io ce l'ho.
Cominciano a arrivarmi sms dalla spiaggia.
"Roberta, perché oggi the teacher non è qui? We miss our lessons!"
Robe così. Rispondo che se siamo fortunati ci vediamo domani, che sono a Funzi e che ho il terrore che la barca si rovesci.
Rispondono con battute generali sulle mie braccia sbranate dai coccodrilli come aperitivo. Si, che ridere.
Finalmente comincia la ridiscesa del fiume. Significa che stiamo per andare sulla terra ferma.
E andiamo su una lingua di sabbia formatasi con la bassa marea vicino all'isola di Funzi a fare un po' di snorkeling e prendere un po' di sole.
I miei compagni di viaggio sono silenziosi. Se non faccio domande, non parlano. E grazie al cielo le mie curiosità difficilmente finiscono. Per cui li bombardo di domande sulla loro vita in Europa e sul motivo per cui han scelto il Kenya come meta delle loro vacanze.
Quando racconto loro delle mie uscite in solitaria per Ukunda, mi guardano stralunati. Mi dicono che devo stare attenta, mi dicono che il Kenya è un paese pericoloso e compagnia bella. Hanno ragione, ma io ho sempre buone guardie del corpo.
Arriviamo a Funzi quasi all'ora di pranzo. Facciamo un giro per l'isola passando per il villaggio di pescatori. I bambini corrono subito da me. Non so per quale motivo i miei compagni di viaggio non li attraggono. Cominciamo a giocare a paradiso. O meglio, glielo disegno per terra e gli faccio vedere come si gioca.
Vincent ride come un pazzo. Mi rimprovera perché invece di seguire le sue spiegazioni su come è nato il villaggio che sta da quella parte dell'isola di Funzi, mi distraggo in tutti i modi.
Ma io le storie me le faccio raccontare dai bambini. Anche se sono inventate, anche se sono raccontate con un inglese misto swahili, io le preferisco. E Ahmed è bravissimo a raccontare storie. Lo capisco subito perché appena mi si presenta mi dice: "Io amo questa isola e ne conosco tutti i segreti, vuoi che te li racconti?"
Come dirgli di no? Mi dice che la sua isola è stata dominata dagli arabi e che lui e gli altri bambini vanno a scuola di corano due giorni a settimana. Dice che è importante non perdere le tradizioni dei suoi antenati. Dice che suo padre gliel'ha sempre detto che è importante studiare il corano, perché ti avvicina a Dio. E quando sei vicino a Dio sei al sicuro.
Gli altri bambini ascoltano come me la favola dell'isola di Funzi e ogni tanto ridono perché dicono che a volte a scuola si mettono a cantare e il maestro li sgrida.
Mentre Vincent racconta la storia dei diversi baobab che incontriamo, io gioco a paradiso per strada, ascolto Ahmed e vado a salutare le donne che fanno il bucato. Il Momo è il detersivo più usato anche a Funzi, non solo a Ukunda.
Andiamo nella mini-scuola di Funzi dove i bimbi cantano per noi una serie di canzoni al ritmo del bastone usato dal maestro come fa un direttore d'orchestra.
Estraggo dal mio super-zaino una montagna di quaderni e matite e li lascio al maestro. I bambini mi baciano tutti.
E tutte le loro manine morbide mi accarezzano i capelli e le gambe.
C'è una principessa in mezzo a loro. La fotografo più volte. Vorrei portarla via con me.
Dopo la scuola proseguiamo la visita al villaggio e vediamo le donne al lavoro mentre preparano la farina di grano, quella che usano per l'ugali. Quanto sono belle, e quanta forza hanno nelle braccia. Mi chiedono se voglio provare a pestare il grano, ma io sono sicura che se prendo uno di quei grossi bastoni mi ribalto. Non ho forza nelle braccia.
Glielo dico, mostro loro il mio muscoletto inesistente e ridono come pazze.
Il pranzo a base di crostacei e pesce è ottimo. Ma che ve lo dico a fare. Danesi e francesi mangiano con gusto e in silenzio. Quasi mi sono stufata di fare l'animatrice.
Ma non del tutto, tant'è che comincio a raccontare di quando andavo a pesca con mio babbo.
Vincent mi chiede se riesco mai a stare zitta, ma che è divertente ascoltarmi e che dovrei scrivere un libro di fiabe per bambini.
Nel pomeriggio, il rientro a "casa" per me è un po' triste.
Non vedrò più i bambini di Funzi. Ahmed mi ha lasciato il suo indirizzo e io gli ho lasciato il mio.
Funzi è proprio fuori dal mondo. E sentire che il dottore li ci va solo una volta a settimana e neanche sempre perché dipende da quanto è agitato l'oceano, è stato agghiacciante.
Lezioni di italiano
Nelle mie giornate continuo a insegnare italiano. E’ aumentato il numero dei ragazzi che vogliono seguire i miei mini-corsi. E devo dividerli in due gruppi perchè i digo non vogliono studiare con i Samburu. I digo dicono che i samburu sono troppo stupidi e fanno perdere tempo. Inutilmente cerco di convincere i digo che perdono la lezione riservata ai digo, a seguire quella dopo riservata ai samburu. E così comincio a cogliere le divisioni che ci sono tra la popolazione locale. E giorno dopo giorno sono evidenti le invidie, le gelosie, la necessità di prevaricare l’uno sull’altro.
I samburu che seguono le mie lezioni non sanno leggere. E così con loro faccio un po’ più di fatica a tradurre dall’inglese all’italiano. Perché? Perché il mio inglese è pessimo. Parlo della pronuncia, e così anche se tento di scrivere sulla sabbia per loro diventa comunque difficile capire. Però mi danno grosse soddisfazioni anche loro, perché quando mi salutano riescono a dirmi due o tre frasi in italiano.
Una sera assisto al loro spettacolo al villaggio presso cui alloggio. Loro mentre danzano mi riconoscono, fermano lo spettacolo, mi fanno un inchino e tutti insieme urlano: “buona sera maestra!”
Che belli.
Le giornate corrono veloci, e le amicizie diventano più solide. C’è sempre qualcuno che mi aspetta fuori dall’albergo. Che sia mattina presto, che sia mezzogiorno, che sia pomeriggio, che sia sera, trovo sempre qualcuno ad aspettarmi. Mi sento quasi importante.
Tento inutilmente di spiegare ad alcuni quanto possa essere utile collaborare per raggiungere dei risultati. E le mie lezioni di italiano cominciano a diventare tentativi di insegnare a sopravvivere in maniera diversa. Ogni giorno parliamo molto e mi dicono che non avevano mai conosciuto una donna che parlasse così tanto. Alcuni mi dicono che non amano particolarmente le donne che parlano tanto, ma per me fanno un’eccezione perché dico cose importanti.
Gli chiedo come mai hanno quasi tutti la mania d’andarsi a cercare una donna europea. Chiedo se è perché sperano che la donna europea gli salvi la vita. Chiedo se sono convinti che tutte le donne europee sono ricche. Chiedo se si sono convinti che io sia ricca. Chiedo perché non amano le donne di Ukunda che io trovo bellissime.
Le risposte arrivano. Le donne di Ukunda sono malate. Questo mi dicono. Le donne di Ukunda vogliono i soldi e per sposarle devi pagare non so con quante mucche alla famiglia. Una donna europea ha il suo lavoro, non ha bisogno che io le dia dei soldi. Questo mi dicono.
Mi raccontano di quanti di loro hanno lasciato il Kenya perché hanno trovato una donna europea di cui si sono innamorati e che hanno sposato.
Mi raccontano di altri che si sono legati a donne europee e ne hanno tratto parecchi vantaggi economici.
Chi guadagna di più a Ukunda sono i taxisti, quelli che lavorano sui matatu, e le agenzie turistiche. Ecco, tanti si fanno comprare un matatu, o un pulmino per safari o una macchina. E così sono poi a posto per il resto della loro vita. Mi dicono che spesso chi ha la donna europea, a volte ne ha più di una e ha anche una donna a Ukunda. E’ la cultura. E’ la religione. E’ necessità di sopravvivere.
Mi dicono che se io non fossi stata ricca non avrei mai potuto andare in Kenya.
Gli racconto com’è la mia vita a Milano. Gli spiego quanti sacrifici faccio ogni giorno per non spendere soldi da metter da parte per poter tornare da loro in Kenya. Gli spiego cosa sono disposta a fare pur di realizzare i miei sogni. Chiedo loro se hanno un sogno. Mi dicono che alcuni sognano di andare a vivere in Europa. E io chiedo loro se stanno mettendo da parte i soldi per realizzare il loro sogno. Mi dicono che per loro è impossibile risparmiare una cifra del genere. E io gli dico che se non ci provano neanche, non arriveranno mai a saperlo sul serio. E allora mi rispondono che tanto prima o poi troveranno una donna europea.
Scrivo sulla sabbia tutte le mie spese mensili, e li lascio a bocca aperta. Mi chiedono scusa per aver sottovalutato quanto potesse essere dura anche per me.
Ritengo sia stato già un gran traguardo che siano riusciti a immedesimarsi e mettersi nei miei panni.
Non è una cosa normale da quelle parti di mettersi nei panni degli altri. Non è egoismo, è spirito di sopravvivenza. Quello vero.
Se cammini per Diani Beach e provi a chiedere a un ragazzo di Ukunda perché non ha una fidanzata, ti verrà risposto che sta aspettando una donna italiana.
La classifica è come segue. Al primo posto desiderano un’italiana. Se proprio non la trovano, va bene una francese, e solo se non trovano un’italiana o una francese, possono passare a una tedesca o un inglese. Ma non per questioni economiche, solo perché le inglesi e le tedesche generalmente sono più grasse, e vengono lasciate come ultima spiaggia.
Riprendiamo a parlare delle donne di Ukunda. Le ho viste al Masai Club, quelle che loro chiamano “malate”. Sono prostitute. Ce ne sono davvero tante. Mi raccontano che le donne si danno via a pagamento fino a un certo punto della loro vita, finché non hanno una quantità di denaro accettabile che consenta a loro e alla famiglia di vivere decentemente, e chissà, magari di aprire un negozio. Ma quello che succede ai loro sogni è che si infrangono su una serie di malattie.
AIDS. Se qui in Italia 1 persona su 1000 è malata, li sono 1 su 5 ed inoltre oltre il 50% non ne è consapevole.
E come mi dice un amico a cui tengo molto, non è l'italiano che devo andare ad insegnare loro ma prima di tutto come restare vivi da un flagello che li sta annientando molto velocemente.
A che serve sapere una lingua in piu' se poi muoiono di AIDS a 30 anni?
E poi diciamo che sono belli i bambini sempre felici, che è bello vedere la gente che sorride e tornando dalle ferie diciamo che è il posto piu' bello che abbiamo mai visto, tutta quella gente, i sorrisi, la semplicita'.....ma loro non hanno niente...che semplicita'...che sorrisi......che allegria........ma che di tutto ciò?
Io quando guardo l'Africa ci vedo dolore, sofferenza insopportabile, ignoranza basilare e voluta, fatica, malattie e morte....io vedo questo giù....e la amo per questo ...per non dimenticare mai quello che gli uomini sanno fare o meglio che ...non sanno fare e cioè aiutare senza fini e senza tornaconto.
Di bello in Africa ci potrebbe essere moltissimo ma attualmente non c'è quasi niente.....vanno solo aiutati con la conoscenza, con la comprensione, con gli aiuti personali....non c'è altro modo.....prima di tutto insegnandogli che nella loro situazione un secondo senza fare attenzione sessuale puo' voler dire morte.
Di certo non si va giù a fargli vedere che sporadicamente si può anche fare l'amore senza fare la massima attenzione.
Mi raccontano che spesso vanno con una prostituta, perché non c’è altro modo per stare con una donna. Io chiedo loro se fanno attenzione quando hanno rapporti sessuali. Raccomando loro di usare sempre il preservativo. Di non cedere mai al desiderio di fare l’amore senza, solo perché potrebbe essere più piacevole.
Mi rispondono che alla loro vita ci tengono. E che sanno che possono morire.
Spiego loro che non solo possono morire loro, ma se poi tornano dalle loro donne, possono infettarle, metterle incinta e far nascere bambini malati.
Mi dicono che so vedere l'Africa nel modo giusto e non come la turista che si rallegra quando vede un bambino che gli sorride. Rispondo che sono totalmente innamorata dei loro bambini. Mi dicono che i bambini sono la loro gioia. E che non dimenticheranno mai i nostri discorsi.
Mi chiamano Miss Ziggy, oppure The queen, e a volte Lady Africa. E io sono felice come una pazza perché quando ti danno un soprannome è perché fai parte di un gruppo.
Più passano i giorni, più parliamo, più mi rendo conto che da sola non posso proprio cambiare le cose, secoli di storia, di cultura differente e di sogni che non vanno oltre la giornata di oggi.
Ora mi ritrovo ancora in lacrime, e la sensazione di aver lasciato li di nuovo tutta me stessa, non mi abbandona. Più vado li, più metto radici, più diventa difficile stare lontana.
Gli amici mi mancano come non mai. I luoghi anche se me li porto dentro, li sento lontani.
Ho comprato un computer per una scuola. Ora i ragazzi della secondary potranno imparare a usarlo. Ancora non c'è la connessione a internet, ma per lo meno sapranno usare un pc. Pole pole. Magari presto avranno anche la connessione a internet.
Sono stata a un matrimonio a Mombasa. E' stato molto commovente e mi ha fatto sognare per un po'.
Matrimonio a Mombasa
Un giorno aspettavo Juma fuori dal Papillon Lagoon e si avvicina a me Mamadou. Parliamo e mi dice che le manca da impazzire la sua ragazza. Lei vive in Belgio. Mi dice che a gennaio si sposeranno. Per la precisione il 3 gennaio. E mi chiede se voglio esserci quel giorno.
Certo che voglio. Il mio primo matrimonio in Kenya. Sarà bellissimo, mi dico. E Mamadou ha invitato proprio me. Si sposeranno a Mombasa. Non so nient'altro. E da quel momento comincio a pensare a cosa posso regalare, a come ci si veste a un matrimonio in Kenya, a che cosa si porta alla festa, a come si salutano i familiari, a tutto e anche di più.
Quando Juma arriva, Mamadou gli comunica che il 3 gennaio abbiamo preso impegno con loro. Juma mi chiede: "vuoi davvero partecipare?" Senza spiegarmi niente.
E comincio a pensare che magari avrei dovuto rifiutare, che magari ho fatto male a dire subito si, che avrei dovuto prima chiedere a Juma se voleva accompagnarmi. Insomma, mi vengono subito le paranoie. Mamadou mi guarda e mi dice: "Sta tranquilla, non sei tu che devi sposarti"
E ridiamo.
Il giorno prima del matrimonio Juma mi dice che il 3 deve lavorare, che proverà a chiedere mezza giornata al suo capo in modo che riusciremo a andare a Mombasa e tornare per tempo.
Gli dico che è uno dei suoi migliori amici a sposarsi. Che il suo capo capirà. "Non è questo il problema. Se vengo visto al matrimonio di Mamadou con una bianca è un problema per me."
Gli rispondo: "ma scusa, Mamadou sposa una bianca... non vedo dove sia il problema"
Non mi risponde. E dopo un lungo silenzio mi dice: "ok, andremo, non c'è problema."
Ho smesso di interrogarmi sui suoi silenzi. Suoi e quelli degli altri ragazzi con cui ho a che fare per tutta la durata dei miei due soggiorni. I silenzi a Ukunda possono voler dire tutto e niente. Ma io li interpreto sempre nello stesso modo. E so che c'è qualcosa che non mi vogliono dire e non capisco perché.
Al mattino, alle 8 circa, viene a prendermi all'albergo con il matatu. Andiamo a Ukunda. Lui deve procurarsi una camicia buona per l'evento. L'avevo visto confabulare la sera prima con dei ragazzi di un negozietto, e è proprio li che andiamo. Da un sacchetto nero tirano fuori una camicia. Si vede chiaramente che è stata da poco usata da qualcuno perché ha il segno di una cicca di sigaretta spenta nella tasca. Non si nota molto. Ma io l'ho notata.
I suoi amici cercano di spiegarmi qualcosa del tipo: "non siamo riusciti a trovarne una nuova e ..."
Io dico: "non è un problema, figuriamoci, non mi dovete mica dire niente a me!"
E penso che quella camicia sia stata rubata da qualche parte. Ma non importa.
Andiamo a fare colazione. Fa un caldo bestiale. Sono vestita in maniera semplice, una gonna nera e una canotta bianca. Juma ha detto che vado bene, che non sarà un matrimonio con tanti invitati, e che non mi devo preoccupare.
Io ero in pensiero perché non avrei voluto turbare nessuno dei presenti con parti del corpo troppo scoperte.
A colazione riusciamo a avere la nostra discussione quotidiana e io decido che a sto benedetto matrimonio non voglio andarci. Mi fiondo fuori dal bar e vado alla ricerca di un matatu.
Improvvisamente perdo il senso dell'orientamento. E trovo solo matatu diretti a Mombasa, nessuno diretto alla zona spiaggia.
Quando chiedo se per favore mi indicano quale sia la fermata dei matatu per la spiaggia, non mi aiutano, perché sono amici di Juma, e lui dall'angolo fa cenno loro di non aiutarmi.
Non mi interessa, me la cerco da sola la fermata. Eccola.
Quando Juma capisce che ho capito, mi viene dietro e mi dice: "sciocca, non fare così, andiamo a Mombasa, Mamadou ci sta aspettando"
Non mi faccio dire altro, saliamo su uno dei matatu per Mombasa e stiamo in silenzio per tutto il tragitto.
Mi dimentico di essere in compagnia e mi lascio rapire dal paesaggio e dalla gente immancabile ai bordi delle strade.
Lo sguardo fisso fuori, e le domande nella testa. Cosa c'è in questo mondo che mi fa pensare di poter vivere il mio futuro qui? Cosa ho a che fare io con tutto questo? Come potrei vivere con silenzi da interpretare a ogni momento e chiarimenti che non arrivano mai?
Sul matatu ci sono altre persone. Tutti in silenzio che ascoltano la musica, guardano fuori e a tratti guardano me.
Che dovrà fare questa mzungu a Mombasa?
Quando arriviamo a prendere il Likoni Ferry, Juma mi prende una mano, la tiene stretta e pronuncia le prime parole da quando abbiamo lasciato Ukunda: "Stai attenta alla tua borsa", mi dice - "..e non lasciare la mia mano per nessun motivo".
Sono l'unica bianca in coda tra la gente a piedi. Mi guardano con sorpresa. Non è normale vedere un bianco a piedi nella massa di lavoratori Kenyani che si recano a Mombasa.
Il sole è alto sulle nostre teste, e la mia quasi fuma da quanto scotta. Sudo. Tutti sudiamo.
Non mancano i venditori di bibite, non mancano i carretti pieni di frutta, non mancano donne con ceste sulla testa, non mancano i bambini che vanno a scuola. In questa mini-realtà in movimento, è tutto come tutte le altre volte che ci sono stata.
Io e l'omino che mi accompagna continuiamo a non parlarci.
Quando il Ferry attracca, tutti corriamo verso i matatu che aspettano fuori. Come diavolo si fa a capire quale è quello che va dove dobbiamo andare? Non capisco ancora le indicazioni. Ma mi fido di Juma e mi lascio trascinare dappertutto.
Fin dal momento in cui Mamadou mi ha chiesto di partecipare al suo matrimonio, avevo pensato a una cerimonia in stile swahili, a Ukunda, non a Mombasa. Ma va bene, significa che magari è in una grande chiesa. Magari c'è tanta gente. Magari i parenti di Pascale hanno preferito Mombasa perché hanno trovato alloggio qui.
Niente di tutto questo. Arriviamo di fronte a un edificio piuttosto alto. A Mombasa sta piovendo. Sembra di essere a Milano. Ovunque c'era il sole, qui piove.
L'edificio mi ricorda vagamente il comune di Nuoro. Allora penso che forse questo è il comune di Mombasa. E allora non si sposano in chiesa? Si sposano in comune? Non chiedo niente a Juma perché voglio che sia lui a rompere il silenzio.
Prendiamo l'ascensore insieme a una decina di altre persone.
Quando lasciamo l'ascensore, comincia una serie di corridoi alla ricerca dei due sposi. Eccoli, ci vedono, ci riconoscono, ci sorridono. Si alzano, Mamadou mi dice che aveva perso le speranze di vederci, mi presenta Pascale e mi chiede come sto.
Gli dico che ora sto bene. Che ammazzerei il suo amico, ma è un giorno di festa, per cui quel giorno lo risparmierò.
Cominciamo a rilassarci e riprendiamo a parlare.
Mi guardo intorno e non vedo altri bianchi. Dove sono i parenti di Pascale? - mi chiedo. E allora lo chiedo pure a lei che mi dice: "la mia famiglia non approva questo matrimonio"
Le dico che la vita è sua e che può farne quello che vuole. E non importa se va contro il volere della sua famiglia. Qui è in gioco la sua felicità. L'abbraccio come se fosse una delle mie più care amiche e lei si commuove. Mi dice "grazie". Parliamo in francese. Si, il mio francese sepolto da secoli e secoli.
Il giudice di pace è in ritardo. Anche ai matrimoni, in Kenya se la prendono con calma. Aspettiamo circa un'ora e mezza nel corridoio. E Pascale comincia a rilassarsi un po'. Quando siamo arrivati era chiaramente tesa e anche triste.
Lei e Mamadou si sono conosciuti circa due anni fa. Dopo una serie di tira e molla, di viaggi nel paese ogni tre o quattro mesi, hanno deciso di sposarsi. Lo zio di Mamadou vive in Belgio da diversi anni e ha già un contatto per un lavoro per lui.
Mamadou lascerà il Kenya per trovar fortuna altrove. E con una moglie.
La mia testa comincia a andare per conto suo. Pensa a quante coppie ho sempre incontrato lungo la spiaggia di Diani, a quanti ragazzi di Ukunda hanno una donna in Europa, a quanti di loro cercano solamente una via d'uscita da un paese le cui condizioni di vita non sono condizioni di vita.
Penso a Mamadou, a come ci si può sentire quando si ha finalmente trovato quella via d'uscita.
Sembra che si amino davvero. Lei è profondamente commossa e emozionata per quel che sta per svolgersi nella sala dei matrimoni. E io mi sento agitata quanto lei. Mi trasmette la sua tensione e io cerco di trasmetterle la mia calma.
Mi dice che è felice. Anche Mamadou me lo dice. E lo credo bene.
Non ci sono altri invitati oltre me e Juma. Le altre due persone presenti sono i testimoni. E l'accorgermene mi rende leggermente triste.
Cominciamo a fare foto a ogni respiro e bacio tra i futuri sposi. L'agitazione raggiunge l'apice, quando finalmente arriva il giudice di pace.
Ci accomodiamo e la cerimonia ha inizio. Si svolge in inglese. Pascale fa fatica a capire, ma Mamadou traduce per lei in francese. Io stranamente capisco tutto e comincio a commuovermi come una bambina. Il giudice di pace dice delle parole dolcissime su quanto sia importante il legame che si sta per stabilire tra quelle due anime.
Ascolto tutto senza perdermi una parola. Faccio foto ogni istante e anche Juma le fa. Siamo tutti profondamente emozionati. E quando arriva il momento dello scambio delle promesse nuziali comincio a piangere a dirotto. Quanto sono dolci tutte quelle parole. Quanto è forte l'amore che riempie quella stanza.
E quando il giudice di pace conclude con la frase: "...e ora Pascale puoi considerarti cittadina del Kenya a tutti gli effetti. Sarai benvenuta tutte le volte che vorrai perché questa è casa tua", mi sono seduta, ho continuato a osservare i loro volti, e anche Pascale è esplosa in lacrime, di gioia.
Marito e moglie. Per la vita. Niente spezzerà questo legame.
Queste parole nella testa, e un morso al cuore.
E' così che si prende la cittadinanza in Kenya? Ma perché devo essere sempre così cinica?
Abbracci post-cerimonia. Siamo tutti più rilassati. Mamadou mi stringe forte e mi ringrazia per essere venuta. "A momenti cercavo il tuo sguardo forte per non svenire", mi dice.
Anche Pascale mi ringrazia. E ci invitano alla festa che si terrà nel pomeriggio a partire dalle 15.30 a Ukunda.
Guardo Juma, non so che rispondere, aspetto che sia lui a decidere. E dice che ci saremo.
Ce ne andiamo. Passiamo prima alla sede centrale del Barclays Bank perché Juma doveva fare qualcosa. E proprio li si dimenticherà la sua digitale. Tutte quelle foto sono andate perse. Per fortuna sono rimaste le mie!!
Prendiamo un tuk tuk per il Likoni che ci riporterà nel "nostro" mondo. Mombasa vista dal Tuk tuk è stupenda. E' diversa da come la vedi quando prendi il matatu. Sei tu e Mombasa. E basta.
Di nuovo a piedi in coda per prendere il Ferry. Fa caldo, siamo sudati, continua a piovere, non abbiamo niente con cui ripararci, ma non ha importanza. E non ne ha per nessuna delle persone in coda come noi. Nessuno cerca riparo da qualche parte. La pioggia fa parte di quel che succede, e non c'è bisogno di fuggirla.
Di nuovo sul matatu e stavolta in direzione Ukunda.
Il silenzio è di nuovo tra noi perché è così che va. Il viaggio porta riflessione, per tutti. Guardiamo fuori, e le strade, le case, gli sguardi, la gente che ci hanno accompagnato all'andata, ci fanno compagnia anche adesso.
I colori e le immagini scorrono come in un vecchio film già visto, di quelli che non ti stancheresti mai di guardare.
Smetto di sorprendermi e di voler fotografare ogni cosa. Anche il Kenya oramai era diventato "normale" per me. Come io lo ero diventata per gli abitanti di Ukunda.
E' così che funziona quando si trascorre tanto tempo in quei posti? Gli occhi smettono di sorprendersi?
Lungo il tragitto ripensavo all'espressione del volto di Mamadou appena il legame è stato sigillato. Un viso misto paura e felicità.
Sembrava dire: "ok, ora ho sposato un'europea. Ma è veramente questo quello che ho sempre desiderato? Cosa ne sarà di me da ora in avanti?"
E dall'altro lato si coglieva la sicurezza di avere finalmente una via di fuga.
Quanti sogni infranti leggo negli occhi dei ragazzi Kenyani che ho conosciuto qui a Milano.
Me lo chiedo anche io, cosa ne sarà di Mamadou?
Malaria
Me lo ricordo ancora.
Il 5 gennaio ho incontrato Eddy dopo qualche giorno che non si faceva più vedere in giro.Chi è Eddy? E' uno dei ragazzi samburu che seguiva le mie lezioni di italiano. Eddy si scusa con me per non essersi più fatto vedere da capodanno.
Mi dice che ha avuto la malaria e tutti quei brufoli che vedo sono dovuti alla malattia che gli ha procurato questo sfogo.
Mi racconta di quanto è stata terribile la febbre, dei dolori fortissimi alle articolazioni e mi chiede quanto è rimasto indietro con le lezioni.
La sua preoccupazione sono le lezioni. E io invece lo abbraccio chiedendogli se ora sta bene.
I samburu sono restii ai gesti affettuosi. Infatti Eddy si irrigidisce subito, ma mi accorgo che apprezza la mia preoccupazione.Mi dice che ora sta bene e che gli sono mancata, e che la cosa più dura è avere la febbre alta con sto caldo bestiale.Mi dice che secondo lui è stato punto la notte di capodanno. Eravamo insieme quella notte, al baretto del Two Fishes. Non eravamo al Kim4Love perché preferivamo meno casino e poter chiacchierare.
C'erano anche Ali, Saidi, Ali (tutti Ali si chiamano!!) e Mwenye.
Nessun altro di noi sembra aver avuto sintomi della malattia. Ci riteniamo salvi.
Ma poi tra me e me mi dico che le punturine che ho trovato sulla mia pelle probabilmente non erano della maledetta zanzara Anophele, gravida e infetta. Non potevo essere mica così sfigata!
Mi sento tranquilla perché ho fatto la profilassi. E allora prendo Eddy per un braccio, gli faccio cenno di sedersi e lui e Moses seguono le mie lezioni di quella giornata.
Martedi 22 maggio 2007
Una serie di episodi nel seguente ordine.
Faccio i miei soliti esercizi sulla sedia. Per esser più chiari, ci salgo sopra per 400 volte perché la uso come step per tenermi in forma.Faccio duecento addominali. Si, duecento.
Mi preparo un tea caldo alla Vaniglia.
Mangio mezza vaschetta di gelato all'amarena.
Nella notte tra il 22 e il 23 maggio sento arrivare una scarica di pugni sulla mia schiena. Mi sveglio e cerco il responsabile nella stanza. Mi rendo conto che forse era un sogno, peccato che i dolori sono pura realtà.Dolori fortissimi alle ossa, alla schiena, ai muscoli, al fegato, alla milza. Ora posso dirlo perché me l'hanno detto i dottori dove sono collocati fegato e milza.
Non do peso. Penso di aver esagerato con gli addominali, penso di aver esagerato con la mezza vaschetta di gelato all'amarena, penso di aver preso un'influenza causa aria condizionata in ufficio.
Ripenso al weekend al parco e al prato umido. Insomma, ho una certa età, forse saranno solo reumatismi.
Mercoledi 23 vado comunque a lavoro e i miei colleghi sono costretti a riportarmi a casa perché non respiro più dal dolore.
A casa misuro la febbre. 38.5.
Urino sangue. Parecchio. E penso che mi stanno arrivando le mie cose, per cui non ci do tanto peso. Prendo una aspirina C e mi metto a letto. Dopo un po' nessun dolore e la febbre scende. Svanito l'effetto della aspirina, tornano i dolori e la febbre sale più alta di prima. Prendo una tachipirina e dormo tutta notte tra un dolore e l'altro.
Giovedi 24 vado a lavoro prendendo aspirina C a intervalli di 4 ore l'una dall'altra. E così vado avanti per tutto il giorno. Le diagnosi dei miei colleghi sono le più disparate.
"E' sicuramente il nervo sciatico!"
"Hai l'appendicite".
"E' colpa dell'aria condizionata".
"Non c'hai er fisico".
Venerdi mi sveglio con una febbre a 39.5. Mi sento morire. E decido di non andare a lavoro. Qualcuno si improvvisa sciamano e oltre a un'infinità di frutta, mi porta a casa una bottiglia di aceto bianco.
Mi dice che dalle sue parti si usa fare i massaggi all'aceto per far sfebbrare. E così mi sottopongo a questo massaggio pur di guarire.
Nelle vesti di un sottaceto mi sento peggio. Oltretutto sono un sottaceto con la felpa. E' stato lo sciamano a impormela. Suderò meglio e più abbondantemente. Seguo qualsiasi consiglio perché mi sento morire.
Sabato risveglio con febbre a 41.7. Vomito la cena della sera prima. E mi sento più leggera. Ok, era un'indigestione. Mi tranquillizzo e mi rimetto a letto dopo aver mangiato una fetta di pane e nutella (l'unica cosa che riuscivo a mangiare senza poi rimettere) e preso un'altra tachipirina.
Al mio risveglio di sabato 26 maggio sento Enzo e lo supplico di portarmi un medico a casa. Lui mi mette in contatto con un esperto di malattie tropicali che mi diagnostica subito la malaria.
Si, a distanza di 4 mesi e mezzo è venuta fuori. Non ci posso credere, ma così è. Comincio a delirare. Dico a Enzo che probabilmente ho solo uno strappo muscolare alla schiena e che la febbre viene da un'infiammazione al nervo sciatico (me l'ha detto anche Augusto in ufficio, non può essere malaria!).
E inizio a fare stretching sotto i suoi occhi.
Per fortuna lui non mi da retta. Va in farmacia e prende una scatola di Clorochina.E finalmente inizio la cura. Mi dicono che ero li li per il coma cerebrale. Appena prese le prime due pastiglie di clorochina i brividi alla schiena scompaiono, e anche i dolori al fegato sembrano meno forti.
Nelle mie notti deliro in swahili. Compongo frasi perfette che ora non ricordo, e maledico tutti quelli che nella mia vita mi han fatto male. Me la prendo con quelli che mi hanno giurato affetto eterno e ora che sto morendo non sono qui vicino a me.
Non tremo più come una pazza e la febbre comincia a scendere. Prendo altre due pastiglie di clorochina sabato sera, due domenica mattina e due lunedi 28 mattina. E è passata. E' stata dura ma è passata. Ora sono dimagrita, sono ancora molto debole ma sono viva. I medici dicono che grazie al Malarone ho preso una forma lieve di malaria. Non oso immaginare come sarebbe stata una forma forte, perché già così mi sono sentita morire.
Mio errore è stato di non andare subito in ospedale ai primi sintomi, ma non avevo proprio pensato alla malaria a distanza di 4 mesi e mezzo dal mio rientro e invece è tutto vero quello che si legge a proposito di questa malattia: i tempi di incubazione vanno dalle 2 settimane ai 6 mesi e una profilassi aiuta a prendere una forma lieve di malaria se si viene punti dalla zanzara Anophele, incinta e infetta.
Gastrointerite e ragù
In tutto questo apro una breve parentesi.
Prima di cominciare la cura, sabato 26 viene a casa mia un'energumena della guardia medica. Si siede abbondantemente sulla sedia. (e ci tengo a precisare che il termine abbondante qui usato è un eufemismo).
E comincia a parlare.
Questa signora non mi visita, mi chiede solo che cosa mi sento, le dico che ho la febbre a 41.7, che è una febbre che sale e scende, che forse ho la malaria perché sono stata in Kenya qualche mese fa.
Lei comincia a scrivere su un foglio.
Senza avermi visitata questa cara signora mi diagnostica una gastrointerite, mi dice che prima di me ne ha trovate altre due con gli stessi sintomi (me li avesse fatti dire, magari), mi racconta che ogni volta che va in Sicilia prende la gastrointerite, mi dice che a agosto andrà a Courmayeur (non so neanche come si scrive) e che probabilmente prenderà la gastrointerite anche li.
Mi chiede di dove sono, visto che sembro somala. "L'ho notato subito il colore della sua pelle" - mi dice. E prima che riesca a spiegarle che ho preso il sole al parco Sempione proprio domenica scorsa, dove forse ho preso umidità e magari sto male per questo, comincia a parlare della cucina degli stranieri e delle puzze che vengono dalle case dei miei vicini. E dice "l'odore delle nostre patatine fritte sono tutt'un'altra cosa".
Ho temuto che da un momento all'altro si alzasse e mi preparasse qualche bruschetta.Le dico che sono sarda.
E la prima cosa che le viene in mente è: "ma voi in Sardegna ce l'avete il Ragù?"
Capodanno nel bush
I preparativi per il capodanno erano cominciati presto. Nei giorni che lo precedevano sono state messe lungo la spiaggia numerose torrette, una di fronte a ogni albergo. Da li sarebbero stati fatti esplodere i fuochi d’artificio alla mezzanotte per salutare il nuovo anno.
Il 31 dicembre i miei studenti sono proprio bravi. Hanno imparato “Buon anno nuovo” e “Felice anno nuovo” e non fanno che riperterlo a chiunque incontrino. Anche a tedeschi e inglesi. Io ho imparato “mwaka mpya mzuri”. E faccio come loro.
E’ straordinaria la gioia con cui aspettano l’anno nuovo. Sono sicuri che porterà loro la realizzazione dei sogni, finalmente. E di sogni ne hanno davvero tanti.
Anche io ne ho qualcuno, ma mi riservo di chiederne la realizzazione dopo che verranno realizzati i loro.
Al mattino vado al Papillon Lagoon a salutare Sylverster, Ben, Giorgio, Juma e Kennedy.
Nella quotidiana partitella a beach volley, dopo la quale, come al solito, ne vengo fuori con dei lividi ai polsi grossi così causa pallone troppo pesante e miei polsi troppo sottili, tutti sembrano più allegri.Mi dicono che quella sera vogliono assolutamente essere con me a mezzanotte. Mi chiedono dove mi troveranno e gli dico che sarò davanti al Safari Beach Hotel.
Mi dicono che se inizieranno l’anno nuovo con me vicino, gli porterà sicuramente fortuna.
Anche Kosovo mi da appuntamento a mezzanotte. E così so già che dovrò abbandonare i miei amici italiani per scappare in spiaggia a pochi minuti dal nuovo anno.
La giornata corre via tra un preparativo e l’altro, tra un appuntamento e l’altro. Anche al Safari Beach c’è grande fermento. I camerieri vengono istruiti affinché la serata sia perfetta e alcuni vengono a chiedere a me se le decorazioni mi sembrano a posto. Io impazzisco per le trombette che vengono messe davanti a ogni piatto. Non vedo l’ora di suonare la mia.
I tavoli per il cenone vengono disposti intorno alla piscina, al calar del sole tantissime candele si accendono e un’infinità di palloncini si tuffa in piscina.
Non ho un vestito speciale. Ho una canotta arancione e i jeans. Sono vestita così perché so che la notte la trascorrerò nel bush, e voglio essere coperta, almeno sulle gambe.
Nell’attesa che la serata abbia inizio, vado in spiaggia. Anche la spiaggia è illuminata, quasi a giorno. E è già colma di gente. La popolazione locale e i turisti si sono riversati li, quasi che sappiano che l’anno nuovo arriverà dall’oceano.
Incontro alcuni dei miei amici che stanno andando a mangiare qualcosa al Pavillon (Kim4love) e mi dicono che dopo cena saranno qui fuori a aspettarmi. Non vedo l’ora. Non sono mai stata così emozionata per un nuovo anno come stavolta.
Il cielo stanotte ha talmente tante stelle che probabilmente i fuochi d’artificio non riusciranno a superare tanta bellezza.
Non ho notizie di Juma da ieri. Abbiamo avuto una delle solite discussioni. Discutere con un keniota è come discutere con un sardo. E dato che sono sarda, e testarda, ogni volta che discuto con Juma anche solo per la scarsa importanza che da al futuro e alla necessità di risparmiare, finisce che per un paio di giorni non ci parliamo.
A dire il vero mi spiace non passare il capodanno con lui. Insomma è la mia guida spirituale in questo posto. Mi ha insegnato talmente tante cose su questo mondo dimenticato da tutti. Pazienza. Evito di pensarci per non diventare triste e la serata ha inizio.
Francesco della Phone&Go ha preparato una tavolata tutta per noi. Noi chi? In questa vacanza ho conosciuto praticamente tutti gli abitanti dell’albergo, e in special modo ho legato con un gruppi di ragazzi italiani particolarmente semplici e fatti a modo che piace a me. E la nostra tavolata si riempie di allegria in un batter d’occhio.
Le ragazze sono vestite tutte da gala. Io mi dico che vado bene così, con i miei soliti jeans, e con il mio sorriso. Gli uomini non hanno esagerato. Abiti normali. Non da festa insomma.
Lo staff dell’hotel viene a augurarmi il meglio per la mia serata e mi danno appuntamento a mezzanotte in spiaggia.
Fifty mi prende in braccio come sempre e mi dice “questa bambina deve fare gli auguri a me per primo stanotte!”.
E invece, dopo una cena che sembra infinita, abbandono la tavolata, scendo in spiaggia e sono le 23.55.
Incontro subito Saidi, Ali, Ali, Haida, Sam, Claus e Mike. Claus mastica miraa dal pomeriggio. Anche Haida. Non mi piace vederli così. Mi dicono che è capodanno, e che certe cose a capodanno sono concesse. E io rispondo “si, ma voi masticate miraa tutti i giorni! Ma lasciamo stare, le prediche le riprenderò dopo le feste”. E ridono.
Mi salutano tutti con gioia, mi chiedono dove sono gli altri, gli dico che vado a chiamarli perché sta per iniziare la gara di fuochi d’artificio tra gli hotel e in men che non si dica glieli mando.
In tutto questo, è mezzanotte. E son nel vialetto che porta dalla spiaggia alla piscina. Incontro Ismail e è lui il primo a cui do i primi baci del nuovo anno.
E’ uno scambio di auguri veloce perché sto correndo in spiaggia a vedere i primi fuochi.
Eccolo. Vedo l’omino che corre verso la torretta di fronte al Safari beach e va a accendere la festa.
Sono con Saidi e alle prime esplosioni tutta la spiaggia esulta, grida, si abbraccia e non smette di fare “ooooohhhhhh”.
Alcuni fuochi mi terrorizzano e urlo stringendo il braccio di Saidi quasi fino a fargli male. E comincio a urlare “dov’è il signore che ha acceso i fuochi? Dov’è? Io non l’ho visto tornare? E’ ancora li? Mioddio. Sarà ferito!!!” E Saidi comincia a ridere come un matto e mi tranquillizza dicendo che appena ha acceso i fuochi, quel signore se n’è andato.
Gli chiedo di giurarmi che è la verità. Dopo un po’ ci credo. Ma come ha fatto? Io non l’ho visto andare via.
Lo spettacolo è bellissimo. E i sorrisi stampati sui volti dei miei amici lo sono ancora di più. Li vedo così felici. Così spensierati. Sembra davvero che si aspettino moltissimo da questo nuovo anno. Mi sento tanto amata. Ogni volta che esplode un fuoco da una forma differente vedo che mi osservano per vedere la mia reazione e se apprezzo. E quando sorrido e strillo come una bimba, loro mi stringono e mi dicono “non aver paura, ci siamo noi”.
Ci sono anche i miei bambini di Ukunda che mi corrono incontro, mi baciano e mi abbracciano e strillano “mwaka mpya mzuri Roberta”. E io chiedo loro cosa ci fanno in giro senza mamma e papà a quell’ora. Loro mi tranquillizzano dicendo che tutti gli anni è così, che i bambini e gli adulti di Ukunda e Mwabungo, la notte di capodanno invadono la spiaggia e non c’è pericolo per nessuno.
C’è anche il bimbo Ali che mi dice che non ha mangiato niente per tutto il giorno. Che è li dalla mattina. Corro dentro e prendo di tutto. Bananine, pezzi di torta, acqua, pane e tutto quel che è avanzato e è trasportabile avvolto in un paio di fazzoletti. Incontro Ismail che mi dice che sono incorreggibile anche a quell’ora della notte. Scendo in spiaggia e distribuisco tutto tra bambini e grandi.
Sento Ali (grande) che dice a Saidi “Certo sarebbe un capodanno perfetto se potessimo brindare con una birra”. Non sa che ho sentito. Sparisco di nuovo, vado dentro l’hotel, e ritorno in spiaggia con due birre. Ali mi sorride e mi dice “tu mi leggi nella mente?”
E io: “no, ti ho sentito prima mentre bisbigliavi a Saidi i tuoi desideri e ho deciso che almeno uno potevo realizzarlo”. Indico anche Haida, Mike e Claus e dico: “ovviamente dovete dividerle con loro”.
Ridono. E i fuochi d’artificio continuano a illuminare la nostra notte. E non sono solo i fuochi del Safari Beach. Esplodono anche da tutte le torrette davanti agli altri alberghi.
E uno dopo l’altro arrivano tutti quelli a cui avevo dato appuntamento. Ci scambiamo gli auguri, ci riempiamo di baci e abbracci e ci diciamo “tuonane baadaye”, ci vediamo dopo.
Ognuno mi chiede se voglio andare a bere qualcosa con lui al Kim4love. Ma per non rischiare di lasciare qualcuno deluso dico che rimango li, e se ripassano ci risalutiamo.
Saidi, Ali, Haida e Mike riescono invece a convincermi a andare al baretto che da sulla strada del Two Fishes. E così ci incamminiamo prima lungo la spiaggia, dopo aver salutato i miei amici italiani che vogliono andare a dormire (la mattina del primo gennaio loro sarebbero partiti per l’Italia), e poi prendiamo la via dei boschi. E’ talmente buio che non si vede a un palmo dal naso. Ma loro vedono.
Come diavolo fanno a vedere nel buio? E la cosa sorprendente è che in quella vietta che attraversa il bosco è pieno di gente che va e viene, padroni di una strada che per me è invisibile.
Non resisto, frugo nella mia borsa e estraggo il cellulare. Il mio cellulare è uno dei più scarsi che si trova in circolazione. Non ha nessun effetto speciale, non fa foto, non manda mms, non ha colori. E’ come uno di quei vecchi computer con i fosfori verdi.
Ma una cosa fondamentale per questa notte ce l’ha. La torcia.
Quando l’accendo creo una risata generale. Saidi non può credere ai suoi occhi. Mi chiede “Cos’altro hai in quella borsa?”
E così faccio strada non solo a loro ma anche a tutti quelli camminavano alle nostre spalle. E quelli che ci vengono incontro riconoscendomi, cominciano a salutarmi perché riescono a vedermi. Creiamo un ingorgo nella strada stretta del bush, alcuni cominciano a lamentarsi da lontano, ma quando arrivano vicini a me cominciano a ridere “ecco chi è la responsabile di questo casino, the teacher!”.
Non dimenticherò mai quei minuti nel bush. Mi sono sentita a casa.
Al baretto c’è gente che balla. La musica è bellissima. Non è la solita musica del Kim4love. Le note sono di musiche tradizionali e anche i balli sono bellissimi. Ali mi chiede di ballare con lui. Mi dice che sarà il mio maestro.
Incontriamo Eddy che quella sera non indossa i suoi abiti samburu ma una maglietta bianca e i jeans. Gli chiedo dove sono la sua lancia e il suo arco. E ride dicendomi che la notte sul tardi sarebbe andato a Mombasa e in giro per Mombasa non poteva andare con abiti da samburu.
Passo il tempo tra una chiacchiera e l’altra. Saidi mi fa da guardia del corpo tutta notte. Mwenye viene a salutarmi e mi chiede come mai non c’è anche Juma. Gli spiego che non ho idea di dove sia. Qualcuno mi dice di averlo visto all’Ali Barbours. Non mi interessa, facesse quel che gli pare. E ridono, perché sanno quanto io e Juma discutiamo e nonostante tutto ci si vuole bene.
Ali balla tutta la notte. Alle 4 mi sento davvero stanca. Mi ha punto qualche zanzara. Ma non ci do peso, perché è una notte troppo bella per pensare d’aver avuto anche sfortuna.
Dopo esser riusciti a strappare Ali alle ultime danze, le mie guardie del corpo mi riaccompagnano a “casa”. Riprendiamo la strada del bush, sempre con la mia mini-torcia, altri incontri, altri saluti, altro ingorgo, altre risate.
La spiaggia comincia a spopolarsi. E la marea comincia a salire. Mi bagno i piedi, dunque le scarpe e anche i jeans. Ma non ha importanza. Sono così felice.
Prima di salutarci, fuori dall’hotel, Saidi, Ali, Ali(2), Haida e Mike mi cantano una serenata della buona notte.
In hotel vado da Ismail, Waziri e Fifty. Sto un po’ con loro. Li aiuto a ritirare le sedie e ci fermiamo a giocare a biliardo. Quando sto per addormentarmi su una poltrona decidono di spedirmi a letto. Buona notte a tutti, buona notte Ukunda, buonanotte Juma, buonanotte amici miei e grazie.
Affari e Polizia
Il primo dell’anno mi sveglio con ancora addosso le emozioni della notte precedente. Alle 8.00 sono già in spiaggia. Non ho dormito molto, ma non è importante. Di lunedì è previsto l’arrivo di altri turisti, e sarà per me una giornata molto impegnativa.
Dei miei amici trovo solo Juma (capitano dei dhow) e quello che ho sempre chiamato the King ma non ho mai saputo come si chiama. Mi arrabbio molto. Lo so, è capodanno e dovrei prendermela pole pole, ma quando è previsto l’arrivo di nuovi turisti, voglio che i ragazzi mettano il lavoro al primo posto. Vai a farglielo capire.
Saidi arriva alle 9.00 e mi dice che Ali sicuramente verrà nel pomeriggio perché troppo ubriaco dalla notte prima. Gli dico che alle 8.30 c’erano tanti nuovi italiani in spiaggia e che se li sono persi. E che ora staranno facendo il giro di prassi dell’albergo con l’omino della Phone&Go, per cui è probabile che hanno perso l’occasione di avere nuovi clienti. Glielo dico un po’ arrabbiata e lui mi dice che non devo preoccuparmi così tanto, che è la loro vita, che è incomprensibile perché me la prenda così a cuore.
Gli dico che loro hanno bisogno di una guida, che li metta ben bene in riga. Lui ride, ma io sono seria più che mai.
Arrivano alcuni miei amici di un’agenzia locale e mi chiedono subito di aiutarli per quella giornata che sarà molto lunga e piena di buoni affari se ci sarò io.
Ed eccomi, in veste di beach girl, a dare una mano ai ragazzi con i turisti italiani. Si, perché anche se ce la metto tutta nelle mie lezioni, quando si tratta di fare conversazione con gli altri turisti, loro non tirano fuori mezza frase di quelle che ho insegnato loro ma si limitano a ripetere la solita frase “italiani, non c’è problema”. Ma che cazzo! Tutto il mio impegno è finito nelle fogne di Ukunda. Lezione dopo lezione ogni notte hanno rimosso tutte le frasi di benvenuto, e compagnia bella.
E così chi ha bisogno di una mano, viene, prende la mia e mi conduce dal turista che ha adocchiato prima degli altri. Do il benvenuto, come fossi un’agente turistica, chiedo come è andato il viaggio, chiedo quanto tempo resteranno a Diani e se hanno intenzione di fare qualche escursione. Alcuni non sanno neanche cosa si può fare, e io comincio a esporre loro ogni cosa, dai safari, alla gita a Funzi, a quella a Wasini, visita a Ukunda, lingua di sabbia, visita nei boschi del Colubus Trust e compagnia bella.
Fortunatamente nessuno mi manda a cagare. Sarà perché sono bianca (mica tanto), ho un viso d’angelo e parlo italiano. Alcuni si convincono che ho un’agenzia turistica a Diani e che vivo li da sempre. Alcuni pensano che lavori per la Phone&Go e che mi occupo dell’accoglienza in spiaggia.
Ma quando spiego loro che si, alloggio nello stesso hotel da cui sono appena usciti ma che do solo una mano ai miei amici a guadagnarsi la fiducia dei turisti, non possono credere alle loro orecchie.
Sono tanti a dirmi che sono pazza, ma che dovrei lavorare al posto dell’omino della Phone&Go perché ho il sole dentro e si sente da ogni mia parola quanto amo quei posti.
E divento per molti una specie di punto di riferimento. Quando i turisti in hotel hanno difficoltà con l’inglese, mi chiamano per avere supporto, e quando i camerieri hanno difficoltà con l’italiano (sempre!), mi chiamano e finisce tutto con un Ahsante sana.
E il mio primo dell’anno trascorre tra una chiacchierata e l’altra con i nuovi arrivati che non fanno fatica a dare fiducia ai miei amici. Procuro così affari a tutti e tutti sono contenti.
Io non manco di ricordare di metter via i soldi guadagnati in quella giornata. Di non correre immediatamente a spenderli in birra e miraa. Ma come le mie lezioni di italiano, anche queste parole finiscono nelle fogne di Ukunda.
Finalmente ricompare Juma con un “I miss you”. Vorrei rispondergli di andarsene a quel paese, e invece gli dico che ne ho sentite delle belle su di lui e sul suo capodanno. Mi risponde pan per focaccia e per chiarirci ci diamo appuntamento al gate dell’hotel alle 20. Come al solito arriva in ritardo e andiamo al Kim4love.
Dopo una sana discussione, lui mi fa sentire in colpa perché mentre io mi divertivo con i miei amici nel bush di Diani, lui partecipava alla veglia funebre di Moddy, che proprio il 31 è morto.
Moddy e Juma a settembre lavoravano insieme per la stessa agenzia di safari. Un giorno mentre Moddy era alla guida, hanno avuto un incidente. Nessun turista era a bordo, ma Moddy si è fatto veramente male e con i mesi è peggiorato fino a lasciare questo mondo proprio il 31 dicembre.
Sono mortificata. Dico a Juma che non ne sapevo niente e che avrebbe potuto dirmelo, che l’avrei raggiunto ovunque fosse.
Gli dico che il 2 me ne vado a Wasini. Oramai ho pagato, oramai avevo deciso di allontanarmi il più possibile da Ukunda perché dovevo riposare anche io e perché dato che io e lui avevamo litigato, non vedevo nessuna ragione per stare nei paraggi. Inoltre quella giornata di public relation mi aveva stremata.
Mi supplica di non andare. Mi dice che il 2 avrebbe preso la giornata libera per stare con me, che avremmo noleggiato un motorino e ce ne saremmo andati a zonzo per conto nostro.
Non potevo tornare indietro sui miei passi. E avevo dato la parola al capo dell’agenzia a cui mi sono affidata, che tra l’altro mi ha fatto pagare pochissimo, soli 2500 scellini!
E così facciamo una passeggiata per la spiaggia. Ci ferma la polizia. Si, ci ferma la polizia. Per quale ragione? Semplice, Juma viene accusato di essere in giro con una bianca in una zona della spiaggia in cui a quell’ora non è permesso stare. La polizia di Diani Beach credo non sia differente da quella di tutto il resto del Kenya. Corrotta fino all’osso, spietata e con tanta voglia di mazzette. E così questi poliziotti che mi conoscono bene per varie ragioni, chiedono a Juma di sborsare 2500 scellini o lo portano dentro.
Credo di non aver capito bene. Chiedo: “Che problema c’è?”
Mi risponde la poliziotta dicendomi: “mzungu, don’t worry, it’s not your business!”
Juma mi fa cenno di non fare polemica perché sennò ci portano davvero via, e vedo che tira fuori i soldi dopo averci parlato per qualche minuto distante da me.
Mi arrabbio. Non stavamo facendo niente di male. E’ chiaro che gli hanno chiesto soldi solo perché io sono bianca. E mzungu anche per la polizia significa soldi sicuri.
Mi riprometto che al prossimo incontro con i poliziotti di giorno, ci scambierò due parole.
Che ho a che fare io con la polizia di Diani? Presto detto. La polizia in un primo tempo non vedeva di buon occhio il mio darmi da fare per aiutare i miei amici con il lavoro. Un giorno mi fermano e mi chiedono cosa sto facendo. Rispondo candidamente che sto chiacchierando con altri turisti italiani e chiedo se c’è qualche cosa di male in questo.
Mi dicono che si capisce benissimo che sto lavorando. Mi chiedono se ho il permesso di lavoro. Rispondo che io non sto lavorando, perché lavorare significa fare qualcosa e ricevere in cambio del denaro, avere un contratto. Io sto solo raccontando a dei turisti le bellezze del Kenya e li sto rassicurando sull’affidarsi alle agenzie locali. E nessuno mi paga per questo.
Ridono e mi chiedono inoltre quanto mi faccio pagare per le lezioni di italiano. Dico che le faccio gratis.
Mi chiedono chi me lo fa fare. Rispondo che sono in vacanza e ho deciso di godermela in questo modo. Dico che amo avere contatti con gli abitanti del posto e che fare tutto questo mi aiuta meglio a capirne la cultura e i comportamenti.
Mi sorridono e il poliziotto alto di cui non ricordo il nome comincia a chiamarmi “malaika”. Da allora mi tengono d’occhio. Capiscono che posso tornargli utile, eccome. Infatti ovunque mi trovino lungo la spiaggia, si fermano per salutarmi e aspettano che i miei amici facciano affari. Perché? Per chiedere dei soldi a quelli che non hanno la licenza di vendere. Già. Li minacciano che se non sborsano una percentuale dell’incasso, verranno arrestati. Col tempo mi rendo conto che la polizia chiede soldi anche a chi ha regolare licenza minacciando di trovare qualche problema comunque che li avrebbe condotti in prigione.
E così, nel mio intento di fare del bene, ho aiutato sia gli amici, sia la polizia a fare tanti soldi. Roba da matti.
Mi sento comunque protetta ovunque vado. La polizia bene o male sta dalla mia parte perché faccio comodo. Per cui quando cammino per Ukunda anche da sola, non ho paura, perché so che molti occhi sono su di me e in qualche modo mi proteggono. A volte mi sento una specie di “padrino” per il rispetto che avverto nei miei confronti.
Saidi e Ali mi dicono che a volte, se non ci fossi io, rischierebbero qualche notte di prigione. Ed ecco perché mi chiamano malaika, the queen e compagnia bella.
Juma non è contento di sapere cosa faccio durante la giornata. Mi dice sempre che non devo parlare con nessuno, che non devo fidarmi di nessuno, che tutta questa gente prima o poi mi chiederà dei soldi o tradirà la mia fiducia.. Rispondo che anche se mi verranno chiesti, io non ne darò, perché quello che vado predicando da che sono qui è che i soldi se li devono sudare. Io do una mano a procurare loro i contatti, poi gli affari se li devono sbrigare senza di me.
Wasini
Il 2 gennaio dunque parto per Wasini. Fuga da Ukunda. A Wasini ci sono già stata a agosto, e avevo voglia di riabbracciare i bimbi che mi avevano scortata per tutta la visita dell’isola.
Ricordo perfettamente il tragitto che porta da Ukunda a Shimoni, da cui prenderemo poi il dohw.
Shimoni pullula di gente. E’ un paesino nella polvere. E i suoi abitanti sono impolverati anche loro. Vorrei scendere per fare un giro, ma la gita non lo prevede. Chiedo a Billy se possiamo fermarci a prendere quaderni e vestitini in un bazar. Me lo concede.
Mi sembra di essere a Orune, un paesino della Sardegna noto quanto Orgosolo per gli omicidi e la criminalità. Mia mamma è di Orune. Ma non voglio andare fuori tema.
Gli abitanti ti seguono con lo sguardo finché non volti l’angolo e leggi nelle loro facce la curiosità nei confronti della mzungu, ma anche l’ostilità verso questi turisti che vengono, comprano quaderni e vestitini per bambini pensando così di risolvere gli enormi problemi di un paese come questo.
Mi sento terribilmente bianca. Si, la sensazione di non far parte di questi posti continua a accompagnarmi anche in direzione Wasini.
Sul mio dohw ci sono dei kenioti che vengono da Nairobi. Sono in vacanza dal lavoro. Si, lo so perché ci parlo subito, la mia curiosità non si ferma mai. Già, nella mia testa mi dico che dunque esistono anche alcuni kenioti che vanno in vacanza. A Ukunda credo che nessuno vada in vacanza. O meglio, non in vacanza come lo intendiamo noi occidentali. Alcuni se sono in “ferie”, vanno a Malindi a trovare la famiglia, oppure stanno a casa a dormire o al Masai Club a bere birra finché non finiscono i soldi che hanno guadagnato.
Ma torniamo all’escursione. Prima di approdare sull’isola, circumnavighiamo il parco marino di Kisite alla ricerca dei delfini. Li troviamo. Tutti fanno foto, ma io sono troppo presa dall’osservarli per concedermi di perdere tempo con la digitale.
Verso mezzogiorno faccio snorkeling con Masoud, che come tutti quelli che mi vedono nuotare sottacqua, si spaventa per tutto il tempo che riesco a stare senza respirare.
Masoud ha vent’anni e fa avanti e indietro tra Ukunda e Shimoni ogni giorno.
Mi promette che la prossima volta ci metteremo d’accordo, mi porterà a Shimoni e me la farà girare in lungo e in largo come si deve. E vuole farmi conoscere sua nonna prima che muoia.
Non perdo occasione di insegnargli qualche frase in italiano che può tornargli utile con il lavoro.
I miei compagni di viaggio sono tedeschi. E stavolta mi rompo presto di fare l’animatrice, preferisco farmi raccontare da Billy tutta la storia di Wasini, e da Masoud i pettegolezzi di Ukunda. Scopro davvero tante cose e l’escursione diventa davvero istruttiva.
Arrivati sull’isola facciamo un giro diverso da quello che avevo fatto a agosto. A agosto ci si era limitati a fare un giro in paese, poi per la troppa fame avevamo saltato il giro per il parco di mangrovie. Stavolta no, stavolta l’attraversiamo tutto. Si tratta di un parco popolato da mangrovie e da numerosi granchi con una sola chela grossa che gli abitanti dell’isola rivendono al mercato di Shimoni, quando questi diventano abbastanza grossi.
Billy racconta il ciclo di vita delle mangrovie e ci dice che con l’alta marea quello che a me sembra solo un enorme prato dove i granchi vanno a giocare, viene totalmente sommerso e la strada di legno che stiamo percorrendo, rischia di diventare impraticabile perché a pelo d’acqua.
Mentre io ho immagini nitidamente stampate nella memoria, i bambini di Wasini non si ricordano di me. Solo quelli più grandi mostrano mezza rimembranza, ma non importa. Non sono qui perché si ricordino di me. Gioco un po’ con alcuni che mi fanno da scorta per un lungo tragitto, e lascio i miei acquisti fatti a Shimoni, al centro vicino alla scuola. Spero vengano distribuiti. Si, il dubbio c’è sempre. Insomma, parliamoci chiaro, ogni giorno Wasini viene assalita dai turisti, per cui è chiaro che gli introiti ci sono. Possibile che la situazione in paese resti immutata nel tempo e anche questa volta l’alone di povertà che ci ho visto a agosto non sembra assolutamente volersene andare?
Io credo che come per i paesi occidentali ci sia tutto l’interesse a mantenere l’Africa così com’è, con la sua povertà, le sue malattie, la sua disperazione, così in Kenya e in particolare a Shimoni c’è tutto l’interesse a mantenere Wasini nello stesso stato di abbandono di sempre. Perché diciamocelo, la povertà fa colpo sul turista, e con il passaparola altri turisti verranno mandati li, e questo significherà altri soldi per chi lavora sui dohw, per il porto di Shimoni, per chi ti fa pagare i 200 scellini di ingresso al parco, per i “ristoranti” in cui veniamo mandati a pranzare, per le agenzie turistiche locali, per chi altri non lo so, ma non certo per gli abitanti dell’isola.
L’Ukundiano
Torno a Ukunda e poi al mio albergo triste e con la solita consapevolezza di essere in vacanza in un paese in cui niente cambierà mai. Niente. Questo anche per lo scarso impegno e la scarsa voglia del 90% dei suoi abitanti di rimboccarsi le maniche.
Finché si tratta di corteggiare una turista e renderla succube fino a farle perdere la ragione, sono tutti bravissimi e dimostrano un impegno fuori dal normale. Se si potesse assegnare un premio al miglior corteggiatore, sicuramente vincerebbe un abitante di Ukunda. Non mi permetto di parlare di tutta la costa Keniota, ma sicuramente c’è un giro di soldi tra Kenya e Europa che fa paura.
Non lo chiamo turismo sessuale. Non si tratta di persone che senza il loro consenso fanno sesso con qualcuno. C’è anche questo, e con minorenni. Ma di questo non voglio parlare ora. Probabilmente lo farò più avanti.
Insomma, parlo di un’enorme capacità dell’abitante di Ukunda nell’individuare una personalità debole, penetrarla fin nelle viscere e rendersi indispensabile.
L'ukundiano diventa una malattia incurabile, una sorta di droga che ti da dipendenza e da cui raramente c'è una via d'uscita.
Le parole che sanno usare per le strade di Ukunda sono meravigliose. Li ho sentiti i miei amici all’opera. Sono dei veri professionisti del corteggiamento. E ho conosciuto parecchie vittime negli ultimi tempi.
Perché parlo di giro di soldi? L’Ukundiano è un gran parlatore, ti racconta la sua triste vita, che per carità, è veramente triste, e tu, turista sensibile e predisposta fin dalla nascita a una vita da crocerossina, ti senti di dover fare qualcosa per quest’essere che con te è così gentile e ti parla con una dolcezza che non avevi mai incontrato prima. Gli devi salvare la vita, gliela devi per lo meno migliorare.
E così nascono delle storie d’amore. Si, è una particolare forma d’amore. Un tipo di amore in cui lui ti fa sentire la persona più importante del pianeta e tu in cambio gli dai la sicurezza che lui e la sua famiglia riceveranno ogni mese un aiuto economico da parte tua. Io lo chiamo amore, perché l'amore come qualsiasi cosa che diventa necessaria, crea dipendenza. L'ukundiano comincia a dipendere dalla mzungu e la mzungu comincia a dipendere dalla passione che l'ukundiano sa regalare.
Tu ami con tutto il tuo cuore, perché in Europa non trovi nessuno che ti faccia sentire così speciale quanto è in grado di farti sentire speciale l’Ukundiano. E lui non smetterà mai di darti quello di cui hai bisogno. Lui lo sa di cosa hai bisogno. Tu hai bisogno di non sentirti a pezzi. E lui ti fa sentire parte di un intero. Tu hai bisogno di non sentirti sola. E allora gli sms tra Kenya e Europa si moltiplicano in maniera esponenziale a ogni ondata di turisti e turiste che lasciano il paese.
Cominci dunque a prendere l'Ukundiano a piccole dosi. Dosi di due, tre volte l'anno in cui ti rechi in Kenya a respirare aria d'amore, quella che l'Europa ha inquinato da tempo immemorabile. E ti è sufficiente. Non ti senti in diritto di chiedere di più, perché sai che loro non possono dare di più.
Loro non mancano di far sentire la loro presenza con dolcissime parole che sono sufficienti a colmare tutti i vuoti che il mondo occidentale ti crea dentro.
Ogni tanto spariscono. E allora tu li giustifichi in tutti i modi. Si, ci credi se ti dicono che non hanno credito nel cellulare, a Ukunda c’è poca banda, è periodo di grandi piogge, la Celtel in questo periodo ha problemi l’ho sentito dire da molti.
E dimentichi che hai inviato dei soldi ogni mese per cui è impossibile che quel cellulare sia scarico. E l’hai sempre visto a Ukunda, quando finisce il credito, va sempre a comprare una ricarica. Come mai sparisce quando sei in Europa?
Le risposte reali possono essere diverse. Quella più gettonata è che quando lui sparisce, c’è a Ukunda una delle altre europee che lui fa sentire speciale quanto te e a cui giura amore eterno, lo stesso che ha giurato a te, per cui non può farsi sorprendere a mandare sms a te. I più furbi hanno più schede telefoniche, una per ogni amata. Così a ogni eventuale controllo del cellulare a cui per forza di cose prima o poi lo sottoporrai, tu vedrai che ha contatti con te e solo con te.
Un’altra risposta da non sottovalutare mai è che la sua vera donna, quella keniota con tanto di pargoli al seguito, è tornata a Ukunda a spendere i soldi che tu hai mandato, per cui non è necessario sentirti finché ci sono soldi e moglie che girano.
Poi a un certo punto ricompare. E ti dice che qualcuno della sua famiglia (generalmente la madre, perché la mamma è sempre la mamma e se sta male la mamma nessuno può restare insensibile), è stata male e ora servono dei soldi per curarla. Non ti chiede questi soldi, bada bene, ti dice soltanto che sta attraversando un momento di difficoltà in modo che tu possa capire la sua assenza. E tu glieli offri subito, come un imbecille, credi a tutto quello che ti dice, perché il suo sms finiva con un “i miss you so much, I wish you were here”.
Dopodiché, straordinaria ripresa dell’ammalata, ti dice che vorrebbe raggiungerti in Europa perché gli manchi troppo.
Tu dall’altra parte del pianeta impazzisci all’idea che quest’amore possa finire. E allora alle sue richieste di venire in Europa, rincitrullisci totalmente e lo inviti. Lo inviti e gli paghi tutto tu. Gli fai i documenti, gli paghi il passaporto, gli fai il biglietto e lo fai arrivare in Europa per farlo sentire meno solo e annoiato nel periodo delle piogge. E nel tuo paese lo riempi di regali, e compri di tutto anche per la sua famiglia, perché se lo meritano.
Un giorno scopri dell’esistenza dell’altra o delle altre, e ti senti crollare addosso il peso di una vita intera di delusioni e dolore. Ti senti cretina per aver sperato nell’amore con qualcuno di una cultura talmente diversa e appartenente a un mondo così lontano e disperato. E cerchi nelle parole delle tue amiche qualcosa che ti spinga a credere che con te è stato diverso, che l’altra è meno importante di te, che tu resterai per lui più speciale delle altre. Soffri perché ti fa male l’investimento infinito di sentimenti che in maniera più che spietata sono stati ridotti in briciole e niente. E nonostante questo speri che lui non sparisca dalla tua vita.
Alcune perdonano, perché l’ukundiano è diventato insostituibile e indispensabile. Per cui finiscono con sposare questo essere straordinario. Successivamente si ritrovano in casa anche la moglie e i figli kenioti che col tempo prenderanno potere e sperpereranno tutti i soldi dell’europea che in fin di forze mollerà tutto e tornerà in Europa.
Quando mi è stato chiesto: “mi piacerebbe venire in Italia! Mi ospiteresti se venissi?”
Ho risposto: “Se metti da parte i soldi e riesci a comprarti il biglietto, ti ospiterò volentieri”
A tutte le richieste di soldi da parte dei miei amici che comunque ci provano, non si sa mai che ricevano qualcosa pure da me, rispondo sempre che è dura anche la mia vita, che ho difficoltà di soldi pure io, e che dovevano pensarci prima delle grandi piogge a metter via qualcosa.
L’ultima mia risposta è stata:”mi spiace, non posso mandare soldi perché ho problemi con il lavoro ultimamente, non mi pagano da qualche tempo. Anzi, ti chiedo, se ne hai tu, di mandarmi qualcosa al più presto.”
Ovviamente nessuna risposta. Io so che la loro vita non è oggettivamente facile. Ma non tollerò l’idea che per venire fuori dalla loro condizione pensino che l’unica via sia quella di avere più relazioni “economico-amorose” in Europa.
Se tutto l’impegno che l’ukundiano mette nel mantenere un rapporto con ognuna delle europee che incontra e seduce, lo mettesse per crearsi un futuro reale nel proprio paese, le cose nella costa del Kenya forse cambierebbero. La cosa ridicola è che i soldi che ricevono dall’Europa innamorata, li spendono comunque in birra e miraa. Pochi privilegiati riescono a farsi regalare un matatu. Ma dico io, un matatu!!
E allora signore e signori innamorati, smettetela. Smettetela perché non state facendo bene a nessuno, neanche alla crocerossina vi abita. Sono davvero pochi quelli che hanno il senso del dovere e della responsabilità. Quei pochi non sono di certo venuti a chiedere soldi a voi. Quei pochi possono permettersi di prendere una vacanza e andare a Wasini in gita turistica.
Se vi capita di “innamorarvi” a Ukunda, che sia un amore fatto d’amore, e non di invii di denaro mensili tramite Western Union. Amiche, ce l’ho con voi! Si, proprio con voi!
Pensieri
Sogno davvero di vivere in Kenya, per quanto più ci vado, meno mi sembra realizzabile come sogno. Ci vogliono i soldi, e una gran pazienza. E soprattutto ci vuole il rispetto dei Kenyani. Se non ce l'hai, rischi anche la vita, oltre alla possibilità di avere un futuro di qualsiasi genere.
Spesso sono stata l'unica bianca tra le strade di Ukunda. E li sentivo tutti i "mzungu" sussurrati quasi con disprezzo. Si certo, con i giorni che passavano, è stato diverso, piano piano si sono abituati alla mia presenza. Ma non so in che misura si abituerebbero se mi ci trasferissi.
Non avrei mai detto, in passato, che il mio esser bianca avrebbe potuto essere un problema, per me, e per chi mi stava vicino.
Ho guadagnato la fiducia di diverse agenzie turistiche locali, ecco perché mi chiamavano "the queen". Ho procurato parecchi affari a tutti. Ma so in partenza che se dovessi mai chiedere un compenso per tutto quel che ho fatto per loro, troverei delle porte chiuse in faccia.
E' davvero difficile inserirsi in un mondo così lontano dal nostro. Per quanto siano meravigliosi i loro sorrisi, le loro strette di mano, i loro chiederti sempre "come stai?", lo spirito di sopravvivenza è più forte di qualsiasi sentimento verso il prossimo. E se io dimostrassi di voler "rubare" il lavoro, verrei tagliata fuori.
Il lavoro nella vita serve, qui in Italia e ovunque. Ma in Kenya se non lavori muori davvero. Oh, sono tornata più scoraggiata e molto più triste. Sebbene abbia potuto mettere un po' di radici nei cuori della gente che già mi conosceva, mi sento così triste. Sola e impotente. A Diani non è mai possibile stare soli.
Qualche volta mi è capitato di dirmi "sono qui da sola". Ma bastava incontrare lo sguardo di uno dei miei amici, che la sensazione svaniva in un batter d'occhio.
Così sola eppure così circondata di gente. Ho potuto constatare che anche molti dei miei amici sono veramente soli. Non si fidano di nessuno, e cercano di farsi le scarpe a vicenda. Sempre per il famoso spirito di sopravvivenza.
Ho tentato di trasmettere loro lo spirito di collaborazione, di gruppo. "Cercate di lavorare insieme, spartite i guadagni, non permettete al mondo occidentale di trasformarvi in egoisti. Se uno di voi non fa affari in una giornata, magari li farà domani, e dividerà il guadagno con voi. E voi dovete fare lo stesso. In questo modo sarete sempre sicuri di avere qualcosa a fine giornata"..
Com'è stato difficile cercare di far capire loro che se collaborano tra di loro tutto può andar meglio. E se imparano a fidarsi l'uno dell'altro, forse insieme potranno cominciare a fare progetti più seri per il futuro. L'egoismo non porta mai da nessuna parte. Se si è più di uno, si può pensare a un progetto più concreto. Da soli non si arriva troppo lontano. Ma è una battaglia persa. Il futuro per loro arriva a fine giornata. E domani è un altro giorno. Cercano di guadagnare il necessario per mangiare oggi, domani si vedrà.
Oh, mi serviva più tempo. Mi serviva più tempo. E purtroppo dovevo tornare in Italia per il lavoro. Non potevo rischiare di perdere il lavoro qui in Italia per cercare di insegnare a lavorare insieme in un altro mondo. Non sono mai stata invasiva, non ho mai preteso di dettare legge, ho solo espresso diverse considerazioni che hanno accolto bene. Non tutti. Purtroppo quando per tutta la vita si è pensato a sé stessi e solo al bene della propria famiglia, pensare di collaborare con altri diventa difficile.
Sono rimasta sempre più ferita dalle immagini dei bambini. Per quanto siano belli e sorridenti, e sempre pronti a trasferirti la loro gioia di vivere, rimanevo imbambolata a chiedermi quanto fosse ingiusta la vita, a chiedermi perché il mondo sia così mal spartito, a chiedermi perché si debba morire di mal di pancia, e perché la notte quella tosse durava così a lungo.
Dormire a Ukunda mi è servito a comprendere molte più cose. Di quanto le mamme siano forti e allo stesso tempo rassegnate.
Di quanto, nonostante tutto, mi sentirei di diventare mamma in un posto così ma non a Milano.
Di quanto mi senta inutile nei confronti di un paese per il quale non posso davvero fare niente. Niente.
Il Kenya non è solo bei sorrisi e hakuna matata. E' un dolore che è intriso nella terra e nell'anima delle persone che incontri. E "hakuna matata" non significa che i problemi non ci sono, ma solo che spesso preferiscono andare oltre e non guardarli in faccia.
Mi manca tutto, e soprattutto mi manca il tempo che non ho avuto, perché ho lasciato comunque troppe cose in sospeso, tra la gente.
(to be continued)
6 commenti:
Roby, sei grande!
Con affetto,
Aurora.
una turista per caso. ;)
E' un racconto stupendo. Ben scritto. Doloroso non solo per la descrizione della vita degli altri ma anche per quella dei sentimenti vissuti e descritti in prima persona: sulla propria pelle (e nel proprio cuore).
E' anche interessante leggere il cambiamento o forse il leggero "disincanto" o, meglio, la nuova consapevolezza acquisita che traspare passando dal primo racconto (estate 2006) al secondo (gennaio 2007).
Mi permetto di darti anch'io un nickname: Open-hearted Roby.
Ciao
Starfighter
Ho letto, tempo fa ,della tua esperienza con l'albergatrice.Ho dato ragione a lei , non nei modi , ma nei contenuti .Quindi, mi fa piacere che a distanza di solo qualche mese e qualche settimana di vacanza in più, tu abbia iniziato a conoscere i comportamenti di questa gente che gravita attorno alle prede vacanziere.Sono nata in Kenya dove vivo. Ti dico solo una cosa: Tutto quello che fai lo fai per te stessa perchè li ami e loro sanno come farti sentire amata....The queen...etc etc.) Da loro, non hai neppure il rispetto.In primis perchè non rispettano gli Italiani e non potrebbero mai rispettare una bianca che di notte gira per Ukunda.Non sono una vecchia bacchettona, ho forse, circa la tua età. Comunque ognuno è libero di fare le proprie esperienze.Ci risentiremo fra qualche anno
Ciao anonima,
premesso che probabilmente una sorta di egoismo di fondo da parte mia ci sia, intendo nel fare quel che faccio per avere in cambio una sorta di gratitudine che dura quel che dura. Quella gratitudine che fa bene a noi wazungu per sentirci meno in colpa per non essere in grado di aprire gli occhi e prenderci a schiaffi per le condizioni di vita in Kenya e in tanti altri paesi africani, di cui siamo fortemente TUTTI responsabili.
Ma quel che faccio quando sono li è anche a causa una speranza di fondo che ho, e sarebbe quella di fare breccia almeno nella testa di uno. Non dico di tutti. Ma di uno tra tutti gli studenti che ho, e di spingerlo a farsi il suo culo quadro per non far affidamento sulla "preda europea" ma sulle proprie forze. E di forza ce n'è, ma la dirigono verso la direzione più facile, e che da meno garanzie di vita. Perché le europee prima o poi smettono di tornare. Anche se credo che ognuno di loro ne abbia più di una in giro per l'Europa.
Detto questo, aggiungo anche che il rispetto lo percepisco. E so di averlo. Non da tutti, certo. Ma sono piuttosto sensibile e avverto quando una persona mi prende per il culo. L'ipocrisia so che è un uso comune, a Ukunda ma posso dire anche in tanti paesi africani, perché fa comodo far credere alla mzungu che è ben voluta, perché potrebbe venirne fuori qualche scellino in più quando lascerà Mombasa.
Non sono poi tanto illusa quanto potrebbe sembrare.
A presto
Roberta
Ciao Roberta.
Ho passato la serata a leggere tutto ciò che c'è scritto, commentato ed illustrato sul tuo blog e sono rimasta affascinata! Fra poco sarò a Diani / Ukunda per il terzo anno consecutivo, ne sono innamorata!... chissà se ci sarai! Farò senz'altro visita alla Vostra fantastica villa... ma mi piacerebbe anche incontrarti e conoscerti. Posso solo ammirarti e complimentarmi con te per il prezioso operato, anch'io ho cercato di insegnare un po' di italiano ma non ho avuto tanto tempo.... Ciao. Rosy e Angelo
Ciao Rosy,
purtroppo non ci incontreremo. Vivo in Senegal ora, da 2 anni e mezzo quasi :)
e la Villa non so di quale parli ma se parli del Water Lovers, appartiene a Riccardo e Valentina :)
un forte abbraccio e fate buon viaggio
Posta un commento